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Ammazzarsi in Amazzonia (ma di noia)

Civiltà perduta (The Lost City of Z, James Grey, 2016)

 

Ma mettetevi per una volta anche nei panni dei Guarani. Ve ne state andando a raccogliere qualcosa da mangiare per la vostra famiglia, quando vi imbattete… non in un boa di un quintale, non in un ragno gigante, non in un cane a due nasi, ma in qualcosa di peggio: un esploratore europeo. Allora non è una questione di razzismo, davvero, però non è esagerato dire che il più pulito degli esploratori europei come minimo ci ha la rogna. Anche quello che non intende disboscare il quadrante di foresta e venderti al mercato degli schiavi più vicino, anche quello che più che ai soldi pensa all’avventura, alla gloria, a lasciare un nome minuscolo su una carta geografica che fin lì è rimasta bianca, anche lui, diciamolo: puzza.

 

Hanno quest’abitudine ad andare sempre in giro coperti di tessuti, sudarci dentro e lamentarsi; e con la scusa dei barracuda, non si lavano mai. Nel posto più umido al mondo. Mio cugino una volta ha dato la mano a un esploratore inglese e nel giro di tre anni tutta la sua civiltà si era estinta, oh, sono cose successe davvero. Dunque quando vi ritrovate davanti un esploratore – non importa quanto piccolo, e simpatico, lo so, certi son proprio carini, verrebbe voglia di portarteli a casa e rosicchiarseli con calma – la cosa più sensata da fare sarebbe farli secchi, una freccia al collo e via: è anche una cosa pietosa, più rapida della malaria o del veleno dello scorpione. E però certe volte come fai? Te ne arrivano di talmente buffi, con quei baffi biondi e quei gingilli lucenti. È come prendere a calci un cucciolo.

 

A un certo punto si sente anche una nota di flauto.

Allora di solito cosa fa un buon indio che non vuole grane? Saluta e tira dritto. Se l’esploratore insiste (insistono sempre) scusi buon uomo, mi saprebbe dire dove si trova l’Antica Civiltà Eccetera, tu gli indichi l’est, in realtà andrebbe bene qualsiasi punto cardinale ma con l’est non puoi sbagliare. Se quello comincia a chiederti: c’è una città laggiù? strade? fortificazioni? vasellame? tu fai sì sì con la testa, certo, certo, non so cosa sia il vasellame ma tu vai a est che non ti sbagli. Così lui se ne va e puoi stare sicuro che da est non torna più.

 

A un certo punto del film, il leggendario e sfortunato esploratore Percy Fawcett si ritrova coi suoi fidi compagni su una zattera alla deriva del fiume. È proprio alla deriva. Non sta remando nessuno. Eppure fin qui era stato ripetuto fino alla noia che l’obiettivo di Fawcett era trovare la sorgente di un fiume. Ora io non vorrei millantare tutta queste esperienza di cose amazzoniche, ma per quel che ne so, anche laggiù i fiumi scorrono dalla sorgente alla foce, e quindi insomma, come fa Percy Fawcett a trovare la sorgente – alla fine della stessa scena – senza mai remare controcorrente? Dici vabbe’, è solo un blooper, la troupe ha passato mesi in Amazzonia ma forse questa cosa delle correnti non l’ha abbastanza interiorizzata. E però è indicativo di quel che Grey ha capito della foresta. Con le riprese en plein air cercava il realismo, ha ottenuto l’esatto contrario.

Fawcett ha ispirato film
più ispirati, diciamo.

 

Similmente a Iñárritu, che con Revenant voleva darci il ritratto epico di un uomo immerso nella natura, e dopo mesi di riprese ad alta quota con la sola luce naturale ci ha soltanto mostrato di non aver capito né cosa ci sia di davvero disumano nella natura, né quali siano i veri limiti dell’uomo (il suo Di Caprio sembra un supereroe perduto nel salvaschermo di un pc aziendale). Grey commette lo stesso errore: disbosca un pezzo di foresta per farci passare la troupe, poi inquadra i suoi attori e li costringe a dare due colpi di machete ai bordi di un sentiero un cui passerebbe un fuoristrada – probabilmente c’è appena passato. Poi appena può fa un omaggio a Herzog – magari gli stessi errori li faceva anche Herzog (non ho voglia di controllare). Ma erano tempi diversi, il cinema di avventura era un genere ancora abbastanza codificato, un certo tasso di ingenuità necessario. Nessuno si lamenta se in un western le pistole a tamburo sono anacronistiche. Nessuno si lamenta se in un buon vecchio filmone di esploratori in technicolor i fiumi vanno a rovescio. Se queste cose tornano di moda – l’anno scorso Tarzan è andato abbastanza bene – perché non profittarne?

 

Eh però loro il fiume lo stavano discendendo.

E invece Grey si è ritrovato in mano questo romanzo crepuscolare sull’ultima ricerca dell’Eldorado, e ha pensato bene di tirarci fuori un biopic: al pubblico estivo che in sala cerca il brivido di un’avventura esotica, ha pensato di propinare il dramma di un buon soldato oppresso dalle convenzioni sociali e contagiato da un’ossessione. L’approccio realistico toglie un bel po’ di fascino alla storia, senza nemmeno risparmiarci un sacco di inesattezze storiche (Fawcett non era più quel bel giovanotto interpretato da Charlie Hunnam; quando cominciò a esplorare l’Amazzonia aveva 40 anni). Non solo, ma come ogni biopic noioso che si rispetti deve cercare di mettere al centro della storia i Sentimenti! la famiglia! Anche se è la storia di un tizio che pur di girare alla larga da moglie e figli s’inventava una civiltà in Amazzonia. Bisogna dare spazio alla moglie! Sienna Miller se lo meriterebbe pure, ma noi da un film che si chiama Civiltà perdute ed è ambientato in Amazzonia forse ci aspetteremmo altro: ragni giganti, boa di un quintale, cani a due nasi, tutte cose che Fawcett nella foresta incontrò davvero… ma no, bisogna assistere alla scenata di un ragazzino che si lamenta perché suo padre invece di giocare con lui deve andare alla Prima Guerra Mondiale! Che egoismo. Sembra il Lincoln di Spielberg, che doveva salvare l’America dallo schiavismo ma anche litigare con la moglie, elaborare un lutto famigliare, farsi rimbrottare dal figlio, sempre questi figli che non si sentono abbastanza amati dai protagonisti dei biopic.

 

Alla fine The Lost City of Z non è né un rigoroso resoconto dell’ultimo esploratore romantico, né quel filmone avventuroso che meritava di essere. Quel che è peggio è che Grey sembra esserne accorto già a metà script: il film dura due ore e la seconda sembra non finire mai. Riesce ad addormentarti con una battaglia di trincea; riesce a essere prevedibile mentre descrive i luoghi più sconosciuti della terra. Hunnam ce la mette tutta ma per lui è il secondo flop in un anno (dopo King Arthur): che peccato, che spreco. Civiltà perduta è al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all’Italia di Saluzzo (21:30).

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L’amore illegale

Loving (Jeff Nichols, 2016)

 

Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo, ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma “ok” è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.

 

Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C’è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato – ecco perché l’ha appeso, allora – lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.

 

La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell’iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, un uomo senza risorse culturali che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa. Nel suo vocabolario di cento parole c’è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: “Questo non può essere giusto”. Quando l’avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: “Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?” E quando sempre l’avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: “Dica che amo mia moglie”.

 

I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati
abbastanza vani.

Concentrandosi sugli attori, Nichols è riuscito a evitare che Loving diventasse uno di quei film in cui il meccanismo dell’indignazione scatta meccanicamente, perlopiù ai danni di cattivi da operetta, obiettivi fin troppo facili come i segregazionisti della Virginia di mezzo secolo fa. E però la scelta di escluderli quasi completamente dalla scena è molto particolare, e discutibile. Loving è un film antirazzista in cui i razzisti non stanno in scena. C’è in quattro scene intensissime uno sceriffo (un granitico Marton Csokas), anche lui un tizio di poche parole, che non ha bisogno di alzare la voce per annunciare che spaccherà la testa a qualcuno, e che tratta i Loving come due bambini testardi e capricciosi. C’è un giudice convinto di essere clemente, quando spiega che Dio creò bianchi e neri in continenti diversi perché non li voleva mescolati. Ma i bravi e onesti cittadini bianchi della contea – quelli che elessero il giudice e lo sceriffo – Nichols decide di non mostrarli. In questo modo l’imposizione della legge diventa un po’ più assurda, e forse il film un po’ più astratto. Loving voleva parlare soprattutto dei suoi due eroi per caso, e di come loro tranquilla cocciutaggine abbia reso la Virginia e il mondo intero un posto migliore. Tratta il razzismo come un male oggettivo che peggiora la vita delle sue vittime, un ostacolo da rimuovere: non ne indaga le cause, non ne studia i comportamenti. Chi andava al cinema in cerca di questo – chi ha la sensazione che nel 2017, in Italia, ci sia bisogno soprattutto di questo – potrà restare deluso, e forse continuerà a voler più bene a Mississippi Burning, o al Buio oltre la siepe.

 

Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).

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D’amore e d’ombra

Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver…

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c’è Gal Gadot, riservista dell’esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.

Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c’è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l’utopia sionista di “far fiorire il deserto” trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).

Purtroppo il film ha un problema di ritmo. In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d’indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.

Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po’ d’euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c’è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l’inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po’ freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (KippurVa’ e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c’è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all’Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).

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C’è un giudice anche in Yemen

La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana’a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent’anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un’occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt’altro che banale. Paga senz’altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen – uno dei paesi più cinematografici del mondo – e di non lesinare in quanto a esterni. Sana’a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate sono un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po’ di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha – e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.

 

Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all’ingiustizia più palese, e un’avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l’approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell’autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.

La sposa bambina è all’Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.

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E Trumbo prese la macchina da scrivere

Trumbo (Jay Roach, 2015).

“Papà, ma è vero che sei un comunista?”

“Mi appello al primo emendamento”.

“La mamma è comunista?”

“No”.

“E io?”

“Facciamo il test. Se a scuola un tuo compagno non ha la merenda, tu cosa fai? Gli dici di trovarsi un lavoro? Gli offri un prestito al cinque per cento?”

“Papà…”

“O condividi la tua merenda con lui?”

“Non credo che questo sia proprio il comunismo classico, sai”.

“Ah no?”

“Il comunismo è quando i miei compagni senza merenda, essendo diventati la maggioranza, si impadroniscono delle merende di chi le ha, e le collettivizzano”.

“Vabbe’ ma non è che dobbiamo proprio entrare nei dettagli”.

“Papà, ma questo dialogo deve avvenire proprio mentre tu mi fai fare un giro su un pony nel nostro bellissimo ranch?”

“Che ti posso dire, io l’avrei scritto diversamente. Ma Hollywood ha sempre l’ultima parola, quando sarai grande capirai”.

La sua posa iconica (gli hanno anche fatto una statua).

Purtroppo se ci provi col laptop rischi la vita.

Un bel giorno ci svegliamo, e il comunismo negli USA non è più un tabù. Bernie Sanders, il vincitore delle primarie democratiche del New Hampshire, non ha difficoltà a definirsi socialista, e qualche milione di americani non ha evidentemente grosse difficoltà a votarlo. Proprio in questo momento arriva nelle nostre sale Trumbo, la storia di come un grande scrittore e sceneggiatore americano sua sopravvissuto alla caccia alle streghe senza mai rinnegare la sua adesione al partito comunista americano. Vuoi vedere che i tempi stanno davvero cambiando? Andiamoci piano.

Trumbo è uno di quei classici film con cui Hollywood si specchia in sé stessa, trovandosi non priva di difetti ma dopo tutto irresistibile – film che a noi sudditi di periferia non dicono un granché, ma che qualche nomination la portano sempre a casa. Stavolta è Bryan Cranston, più noto per i suoi ruoli televisivi (Breaking Bad), che si ritrova in lizza per l’Oscar tra Di Caprio e Fassbender.

Come tutti i biopic più convenzionali, Trumbo è più interessante per le cose che decide di non raccontare: il protagonista compare in scena già fatto e finito, un radical chic che discetta di giustizia sociale mentre firma contratti milionari. Non interessa la traiettoria che lo ha portato fin lì, ma quel che accade dopo: la caduta in disgrazia di lui e degli Hollywood Ten, i mesi di detenzione che un atteggiamento più prudente e meno idealista avrebbe potuto evitare – e soprattutto la faticosa risalita, nei dieci anni di esilio in cui l’ex sceneggiatore-più-pagato-d’America si ritrova a sbarcare il lunario scrivendo robaccia per il mercato di serie B. Solo perdendo il suo snobismo – e il suo ranch – il Trumbo del film diventa un personaggio simpatico, un poveraccio che tira la carretta mentre i figli crescono e smettono di capirlo, un forzato della macchina da scrivere che deve dimenticare la lotta del proletariato e buttar giù ogni sera cento pagine di sparatorie e inseguimenti.

Così, dopo averlo allontanato e poi riabilitato, Hollywood si rimpossessa di Trumbo costringendolo a rinnegare il comunismo, non a parole ma nei fatti: trasformandolo in un caporale che smista il lavoro ai sottoposti, e la sua lotta per la libertà di opinione in una americanissima battaglia personale per rivedere il suo nome nei titoli iniziali. I dialoghi coi famigliari e col personaggio fittizio di Louis C.K. – un compagno arrabbiato che non riesce a rinnegare il suo radicalismo e cede al rancore e al cancro – puntano tutti lì: Trumbo deve partire comunista col ranch per finire come un eroe che paga ai figli il college e ambisce a una gloria puramente individuale, una bella statuetta e un applauso.

FOR THE MONEY AND THE PUSSY!

Ovviamente c’è un po’ di Hollywood che ci fa una bella figura, mentre i personaggi negativi (John Wayne, la demoniaca Helda Hopper) sono abbastanza stemperati. Kirk Douglas è giustamente onorato per essersi preso il rischio più grosso: il suo kolossal sullo schiavo ribelle Spartaco sarebbe stato materia controversa anche se non avesse deciso di mettere il nome Trumbo nei titoli, poco distante da quello di Kubrick. La vera sorpresa è il tributo a due eroi misconosciuti, i fratelli King, produttori di film di serie B che ebbero l’onore di sfruttare Trumbo nel momento in cui era al verde, ma non lo tradirono. Con tutto il rispetto per Cranston, se c’è qualcosa che ricorderemo di questo film sono quei cinque minuti in cui John Goodman si mette nei larghi panni del volgare ma integro Frank King, e soprattutto la scena esilarante in cui riceve un emissario del Comitato per le Attività Antiamericane. Il tizio minaccia di boicottarlo, lui brandisce una mazza da baseball: io produco spazzatura, dice: annuncia pure tutti i boicottaggi che vuoi, i miei spettatori sono analfabeti. “Sono in questo business per i soldi e la fregna, e stanno piovendo dal cielo!” 

Goodman è ancora una volta impiegato col contagocce, ma è il vero centro del film – anche perché la storia di Trumbo è affidata a Jay Roach, un regista che ha esordito con Austin Powers e proseguito con la saga di Ti presento i miei. Roach non è del tutto immune da un certo timore riverenziale, ma si capisce che l’idea che il celebratissimo Trumbo abbia passato anni a scrivere robaccia per gli analfabeti gli piace parecchio. Sarà stato anche un comunista, ma a salvarlo sono stati dei mezzi gangster ignoranti che volevano far soldi e picchiavano con le mazze da baseball – lo vedi figliola? Hollywood alla fine vince sempre.

L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è al Citiplex di Alba alle 19.30 e alle 22.

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Non hai bisogno di un principe (quando hai un mocio miracoloso)

Joy (David O. Russell, 2015)

Joy ha un sogno: spiccare il volo, portare luce nel mondo. Joy ha due ipoteche sulla casa, tre figli a carico, una madre rimbambita dalle soap e un ex marito appoggiato nel seminterrato che studia ancora da cantante. Joy ha un’idea: nessuna donna dovrà più strizzare il mocio con le mani. Joy ha un incubo che si chiama famiglia: un padre che vuole insegnarle gli affari, una matrigna che sceglie male gli avvocati, una sorellastra invidiosa che paga le fatture sbagliate. Joy ha una via d’uscita: diventerà una star delle televendite, fonderà un impero, e poi busserà a Hollywood e si farà realizzare un film su misura – così che tutti sappiano che ha sempre avuto ragione lei. E tutti vivranno soddisfatti o rimborsati.

Joy è anche il terzo film che David O. Russell gira con Jennifer Lawrence, quello che finalmente sembra tagliato per lei. Come se il regista sentisse di doverle qualcosa: quando la provinò per il Lato Positivo stava cercando una 40enne. Lei aveva 21 anni, lo convinse e poi ci vinse l’oscar. Persino più bizzarra, benché indimenticabile, la sua presenza in American Hustle, dove recitava quasi un mini-film a parte. Stavolta i comprimari sono gli altri – Bradley Cooper, anche lui alla terza presenza di fila, è in scena pochi minuti (ma sono fondamentali). Fa piacere ritrovare anche De Niro: Russell sembra l’unico direttore che riesce a trovargli ruoli dignitosi. Il regista che era famoso per i litigi con gli attori sembra aver fondato una piccola compagnia – sarebbe bello se si aggregasse anche Isabella Rossellini. C’è aria di famiglia ed è proprio quella che serviva a dare il tono alla fiaba.

Certo, spiace un po’ che l’occasione a Russell di lavorare coi suoi attori preferiti stavolta sia stata fornita da una dea americana delle televendite, l’inventrice Joy Mangano: lei voleva né più né meno che un’agiografia sulla donna che si è fatta da sola, lui gliel’ha confezionata senza mezze misure. L’idea di base – una Cenerentola emancipata, che non ha bisogno di principi ma di brevetti magici – è portata avanti con tanta convinzione che ci si è pure inventati una matrigna e una sorellastra.

Qualche spezzone di finte soap dovrebbe esprimere l’autoironia dell’operazione, ma è un espediente meccanico, a un continente di distanza dalle finezze di un Ozon. Russell ha la mano un po’ più pesante, non riesce a dissimulare un certo tono rancoroso così tipico delle autobiografie dei self-made men (e delle self-made women); nella seconda parte sembra cedere il microfono alla committenza.

Forse è il primo film che parla di televendite senza prendersene gioco: anche perché a cantarne le lodi non c’è una Vanna Marchi qualsiasi, ma un estatico Bradley Cooper: quando scandisce “Qualità, Valore, Convenienza”, tu per un attimo ci credi, e in quell’attimo potrebbe venderti un set di coltelli. Niente di male, ma fa un certo effetto pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di I Heart HuckabeesJoy magari è un film più riuscito – certo meno irrisolto – ma è anche quel tipo di spettacolo di cui Russell dieci anni fa ci avrebbe voluto mostrare gli strappi, le cuciture, le crepe.

Joy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:35), all’Impero di Bra (20:10, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10).

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Steve Jobs, genio incompatibile

Steve Jobs (Danny Boyle, ma soprattutto l’ha scritto Aaron Sorkin, 2015).

Se fosse nato nel Quattrocento, avrebbe fatto l’artista. Avrebbe fatto impazzire tutti i committenti progettando per anni una statua equestre costosissima e irrealizzabile, i cui bozzetti però sarebbero ancora nei musei. Se fosse nato negli anni Quaranta avrebbe formato la sua band – senza saper suonare uno strumento e litigando con tutti i colleghi, ma creando una nuova dimensione musicale fatta di tante cose rubacchiate in giro. Se fosse nato negli anni Cinquanta e si fosse trovato nella Silicon Valley al momento giusto, si sarebbe improvvisato inventore di computer costosi che funzionano benissimo finché non li colleghi a nient’altro. Se invece fosse nato nei Sessanta avrebbe potuto scrivere per il cinema e la tv, costringendo i registi a inventare uno stile tutto per lui e rifiutando di riconoscere i contributi dei colleghi – finché non avrebbe litigato col network, licenziandosi o facendosi licenziare, e meditando immaginosi piani di vendetta.

Questo è Aaron Sorkin, acclamato drammaturgo e sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e… no, scusate, questo è Steve Jobs. Ma è anche un po’ Sorkin, che ha preso l’immensa biografia di Jobs e ne ha ricavato qualcosa di assolutamente personale e incompatibile con qualsiasi altro film nelle sale; un dramma in tre atti, ambientato nei backstage di tre teatri diversi. Sono pochi i film che ti fanno pensare: chissà come renderebbe su un palco. Steve Jobs sembra pensato apposta per una messa in scena alla vecchia maniera sperimentale: niente sipario, gli attori cominciano a parlare di quello che deve andare in scena, e lo spettacolo consiste in questo. Lo stesso regista Danny Boyle, un po’ meno frastornante del solito, sembra aver fatto qualche passo indietro di fronte all’evidenza: Steve Jobs è una questione privata tra Aaron Sorkin e il suo (alter)ego.


Steve Jobs 
non è il primo film biografico che taglia fuori gran parte della vita del suo personaggio per concentrarsi soltanto su pochi episodi; è l’evoluzione estrema di una tendenza che a Hollywood negli ultimi dieci anni ha dato soddisfazioni sia a chi vende i biglietti che a chi li compra. Ma di tutto quello che poteva scegliere di raccontare, Sorkin ha scelto con cura proprio quei momenti in cui il manager geniale potrebbe essere l’autore di un dramma che sta per andare in scena: i cancelli stanno per aprirsi, il pubblico per entrare, ma dietro le quinte c’è qualcosa che non va, c’è sempre qualcosa che va risolto all’ultimo momento. Un dialogo da cambiare, un dipendente mediocre da torchiare, un collega che vuol essere ringraziato quando sai che non se lo merita, i parenti con le loro beghe da parenti. Sorkin non è Steve Jobs, ma Steve Jobs è il Ritratto dello Sceneggiatore nei panni del Genio del Computer.

“RICONOSCI LA MIA IMPORTANZA!” “AMMETTI LA TUA SUBALTERNITA”!”

Anche a Sorkin non interessava tanto la tecnologia digitale, né la generazione che l’ha immaginata, quanto il “comeback“, l’odissea di un manager che viene scaricato dalla sua stessa azienda e poi torna e si vendica. È una parabola banale – la stessa descritta più convenzionalmente nel biopic di due anni fa – ma terribilmente congeniale all’autore che dopo aver divorziato da The West Wing non è mai riuscito a guardare una puntata della nuova gestione, e ha continuato a raccontarci storie di comeback. L’autore e il produttore di Studio 60, l’anchorman di Newsroom, sono tutti eroi caduti che tornano sui loro passi e cercando di riprendersi quello che si meritano. Lo Steve Wozniak del film (Seth Rogen), che continua a chiedere a Jobs di essere ringraziato pubblicamente, più che all’inventore dell’home computer somiglia a Rick Cleveland che si sente umiliato perché Sorkin non riconosce che l’episodio che ha vinto l’Emmy era una sua idea. E così via.
Sorkin non ha mai rifiutato l’autoreferenzialità, ma nelle serie tv almeno la disperde su più personaggi, coinvolgendoci in scene corali che ci fanno dimenticare come tutti i colori provengano dallo stesso prisma. Stavolta il coro non c’è: sulla scena Fassbender è solo. La Winslet, ovviamente ottima, non è che l’appendice del protagonista, necessaria a far risaltare il suo ego. Jeff Daniels ha a disposizione pochi minuti, lungo tre atti, per evocare un tortuoso complesso di Edipo – del resto è un Sorkin formato cinema, tutti camminano e parlano come indiavolati. La versione italiana sarà probabilmente un macello, quella coi sottotitoli va bene se invece di guardare il film vuoi leggerti i sottotitoli.

E quindi? Chi voleva vedere un film sull’inventore della Apple, potrebbe restarci male – e sarà la seconda volta in due anni. Se invece interessa l’opera di un talento individuale che voleva specchiarsi in un altro talento e raccontarci com’è difficile essere grandi in un mondo di mediocri, Steve Jobs è il pilota di una serie che butteremmo giù tutto d’un fiato, e uno straordinario dramma in scena stasera anche al Cityplex di Alba (19:45, 22:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15); al Politeama di Saluzzo (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30).

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Il giornalista che si sparò due volte

La regola del gioco (Kill the Messenger, Michael Cuesta, 2014)

Nel 1996 sul sito web del californiano San Jose Mercury News apparve per qualche giorno un’elaborazione grafica che sconvolse l’opinione pubblica americana: una specie di distintivo della CIA su cui si specchiava un fumatore di crack. Corredava il titolo di un reportage che sarebbe diventato un libro e un caso nazionale: “Dark Alliance. The Story Behind the Crack Explosion“. La storia era già uscita in tre puntate sul cartaceo, ma internet – forse per la prima volta – avrebbe fatto la differenza. L’immagine elaborata dalla redazione esplicitava qualcosa che il reporter Gary Webb non aveva voluto scrivere: dietro lo spaventoso boom del consumo di crack, che aveva devastato i quartieri più poveri della metropoli, c’era la CIA!? Una parte della comunità afroamericana, reduce dai disordini del ’92, non faticò a convincersene. Alla pagina web del Mercury cominciarono a puntare altri siti non professionali – la parola blog ancora non esisteva – liberi di fantasticare qualsiasi ipotesi di complotto: la CIA aveva inventato il crack per distruggere la gioventù afroamericana, la CIA aveva domato la rabbia dei neri coprendo South Central con quintali di polvere bianca…

Webb in realtà aveva portato alla luce qualcosa di più circoscritto, ancorché esplosivo: seguendo il processo di un mitico trafficante di LA, Ricky Ross (detto Freeway, “autostrada” per le quantità di crack che riusciva a trasportare quotidianamente), aveva scoperto che il suo fornitore nicaraguense, Danilo Blandon, era un informatore dell’agenzia antidroga federale. Blandon trattava con Ricky Ross partite di cocaina così ingenti che trasformarle in crack era diventata una necessità logistica; coi proventi finanziava la guerriglia dei Contras, che si opponevano al governo sandinista del Nicaragua, combattendo una guerra che il presidente Reagan non voleva perdere ma che il Congresso non gli consentiva di finanziare. Tutto questo sotto gli occhi della CIA, che però – come Webb puntualizzò ogni volta che ne ebbe l’occasione – non era attivamente coinvolta nello spaccio (continua sul nuovo bellissimo e velocissimo sito di +eventi!)

Webb era un buon giornalista, già vincitore di un Pulitzer, ma le sue fonti erano perlopiù trafficanti e spacciatori, in Nicaragua e in California. Il Mercury gli diede la possibilità di firmare una storia che i grandi quotidiani USA non volevano o potevano stampare: una volta pubblicata, si dedicarono con un certo zelo a demolirla. Il Los Angeles Times formò un team di più di venti persone, che ripercorsero la pista di Webb e trovarono qualche errore fattuale – del resto in venti è più facile. Il Washington Post, il quotidiano che tutti associamo al Watergate, all’eroica lotta di due cronisti contro un presidente, nell’occasione praticò nei confronti di Webb quello che da noi si chiama metodo Boffo, potendo contare su anonime fonti governative – alla CIA non dovevano essere così contenti di passare per trafficanti.

Ma a rovinare Webb fu il suo stesso quotidiano, che dopo aver venduto il suo reportage nel modo più sensazionalistico possibile, lo scaricò, dissociandosi dagli articoli già pubblicati e rifiutando di stampare gli altri già pronti. Webb non avrebbe mai più trovato un giornale disposto a lavorare con lui. Divorziò, continuò ad approfondire la sua pista, trasformò Dark Alliance in un libro pieno di storie e di dati, e 11 anni fa si sparò alla testa. Due volte. Pare che sia possibile, non è l’unico caso (naturalmente c’è chi sospetta la CIA, ma l’ex moglie è convinta che Webb si sia suicidato). Benché molte delle scoperte di Webb siano state confermate, Dark Alliance è ancora materiale controverso negli USA. I quotidiani che lo screditarono non hanno cambiato la loro versione: Webb riponeva un’eccessiva fiducia nelle versioni dei trafficanti che incontrava, gente disposta ad accusare i gringos della CIA di qualsiasi misfatto. La vita tragica di Webb ha ispirato un libro, Kill the Messenger, che l’anno scorso è diventato un film: un’ottima occasione per Jeremy Renner (che oltre a interpretarlo lo produce). Se il suo umanissimo Gary non diventa una figura memorabile non è certo responsabilità sua.

La storia era complicata e Peter Landesman, già sceneggiatore di Parkland, decide di risolvere ogni ambiguità nel modo più semplice: adottando acriticamente il punto di vista del giornalista. L’ansia di semplificare non rende nemmeno un buon servizio: Webb visitò il Nicaragua più volte per approfondire, ma nel film sembra esserci andato una volta sola, fidandosi delle prime fonti che ha incontrato. L’inchiesta vera e propria è sbrigata in una ventina di minuti, dopodiché il film decide di scegliere la via meno complicata, concentrandosi su ciò che accade a Webb e alla sua famiglia. La moglie intiepidisce, il primogenito scopre vecchi altarini e fa una scenata, lo spettatore sbadiglia. Ogni tanto la CIA tira qualche brutto scherzo, ma la tensione cala subito. A un certo punto irrompe Ray Liotta, un po’ a gratis: racconta la sua storia di ex combattente per la libertà e narcotrafficante e scompare, non se ne parla più. Non è neanche la prima volta che gli capita – ormai Liotta sta diventando un McGuffin vivente, i registi lo usano per alzare la tensione. Il film poi abbandona il protagonista molto prima del suicidio, attenuandone lo spessore tragico: un’altra scelta più facile che efficace. Uno degli spunti interessanti viene buttato lì nei titoli di coda: qualche anno dopo le dimissioni di Webb, molti documenti che dimostravano le sue tesi vennero de-secretati, ma l’opinione pubblica era distratta dalle avventure del pene di Bill Clinton.

Con tutti questi limiti (a cui aggiungo una Mary Elizabeth Winstead caporedattrice carinissima ma un po’ fuori parte), Kill the Messenger è un film da vedere, se non altro perché è una storia di cui da noi si è parlato poco. Si racconta il giornalismo americano da un’angolazione meno celebrativa del solito, in un momento storico in cui tornano d’attualità i disordini razziali e le macchine del fango – impossibile non pensare a quel Tom Harper che sulle colonne del Sunday Times qualche settimana fa cercava di trasformare Edward Snowden in una spia russa, attingendo (per sua ammissione) soltanto a fonti del governo britannico. Il giornalismo è anche questo. Certo, Sorkin ce l’avrebbe raccontato meglio. Ma non è che può sempre raccontarci tutto lui. La regola del gioco è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:35); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15)

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È lunga la strada per Selma

Una passeggiata.

Selma (Ava DuVernay, 2014)

 

Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l’ha, è troppo stanco.

 

E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po’ della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un “film necessario”. Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D’altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l’incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l’uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l’uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.

 

Scudi umani

A quasi sessant’anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un “donnaiolo” si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l’FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L’adulterio è ammesso, ma non esibito – d’altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell’FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d’ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l’unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell’Alabama – e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo – per ora nessuno sente l’esigenza. 

 

È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po’ soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato: perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo. Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.

 

Selma è al Fiamma di Cuneo, mercoledì alle 20.30, per la rassegna Cinema di qualità. 

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L’uomo che comprò la lotta libera

Foxcatcher (Bennett Miller, 2014)

 

Tutto quello che puoi vedere fino all’orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di Stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito. 

 

Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c’è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell’afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un’estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d’oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo. 

 

Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto. Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un’ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film – ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l’istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c’è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico – ti converrebbe anche – ma c’è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente. 

 

Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L’irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l’aria di un’aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all’altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all’occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all’occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l’unico soffio d’aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto – e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa. 

 

Come tutti i biopic degli ultimi anniFoxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista – poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due. 

 

Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.

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Il film più spaventoso che guarderò quest’anno

Dici che sei mia figlia e sei un’attrice, uhm, specie quest’ultima cosa mi lascia perplessa.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un’enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All’inizio sembri soltanto un po’ più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.

 

Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D’altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com’è fatto l’inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un’enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio – giardinieri, vigili urbani – che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?

 

D’altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l’illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all’infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?

 

Ok magari sei davvero mia figlia, ma un’attrice? Siamo seri su.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema – una delle malattie più spaventose – si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore – ovviamente bravissima – perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po’ troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un’attrice fallita – la sua migliore interpretazione, ah ah ah – no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po’ imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell’esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.

 

Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.

 

All’inizio il Manitoba era minuscolo.

C’è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov’è? In Canada credo, fammi controllare – giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi “Columbia”, ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.

 

Perché sto controllando la voce Columbia di wikipedia?

Dov’ero un attimo fa? Cosa stavo cercando?

In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?

Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.

Ha sempre quel broncetto che – no, un momento. Diamo un’occhiata all’ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.

 

Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un’attrice la so ancora riconoscere che ti credi.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film – il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest’anno – il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell’intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l’istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all’infinito. Dopo un po’ la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.

 

È un po’ come quando ti perdi su internet – esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino – beh, immagino che passino il tempo a discutere un po’ come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos’altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.

 

Still Alice si sporge sul bordo dell’inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c’è niente di davvero interessante laggiù. L’aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet – uh, guarda, c’è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.

D’altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?

La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.

Scusate, è un periodo che sono così distratto – facciamo che se ne riparla domani.

 

(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).

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Il cecchino pasticcione

Invece di sparare al bambino potresti anche mancarlo di un metro per avvertimento. Ci avevi mai pensato?

American Sniper (Clint Eastwood, 2014)

“Figliolo”.

“Papà”.

“Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi”.

“E i cani pastore?”

“Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti”.

“Quindi decisero di cambiare dieta?”

“Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro”.

“E le pecore?”

“Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore”.

“E i lupi?”

“Se li troviamo li facciamo fuori”.

“E se non ce ne fossero più?”

“Li andiamo a cercare. Anche dall’altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine”.

“Papà, ma quindi noi chi siamo?”

“Pecore non siamo”.

“Allora siamo lupi o cani pastore?”

“Dipende, figliolo”.

“Dipende da cosa?”

“Dal mirino del tuo fucile. Se c’è inquadrato qualcuno, quello è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara”.

“Quindi noi… siamo i cani”.

“Finché nessuno ci mette nel mirino”.

“È complicato, papà”.

“Tu spara, capirai col tempo”.

 

Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l’aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l’ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l’ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d’accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d’astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c’è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d’élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d’acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant’anni continua a guardare dall’alto un po’ tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d’un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.

Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l’asciuttezza e l’eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti guarda dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.

Lo si può apprezzare se non altro per l’onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c’erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un’ora). Evitare insomma che l’unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice “Amore tu non sei davvero qui” farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.

 

Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o…

Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l’eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.

 

La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l’autobiografia di Kyle, oltre a fare un po’ acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan – specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c’è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all’orso: la stessa scena che ritroviamo, un po’ prevedibilmente, all’inizio di American Sniper. Quando nell’agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l’uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall’Iraq. È un’idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.

 

Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà: quando è a casa sembra il protagonista di un reality sulla sindrome post stress traumatico; quando è in Iraq si dedica a una caccia all’uomo ossessiva e tatticamente abbastanza disastrosa.  Tutto il film si svolge in una strana bolla temporale: Kyle decide di arruolarsi dopo gli attentati alle ambasciate del ’98, ma non è pronto per il fronte fino alla guerra in Iraq (2003!) I “turni” all’inizio durano sei settimane, al termine delle quali un figlio appena nato può già camminare sulle sue gambe e discutere col padre (ma continuate pure a lamentarvi di Interstellar). I cattivi sono cattivi perché sono cattivi: e siccome ai buoni capita di tirare ai bambini, la cattiveria dei cattivi prevede l’uso del trapano contro altri bambini. Nessuno si domanda mai, nemmeno retoricamente, perché Kyle e i suoi compagni si trovino in Iraq per difendere gli USA da un’organizzazione terroristica basata tra Afganistan e Pakistan. L’Iraq peraltro è un enorme set di Call of Duty in cui l’esportazione massiccia di democrazia sembra non ottenere nessun tangibile effetto.

 

Su questo set, Chris Kyle si dimostra tiratore tanto magnifico quanto soldato pasticcione. Almeno una volta disobbedisce platealmente agli ordini; si improvvisa interrogatore e negoziatore e dirige commandos senza averne le competenze – e infatti combina disastri: quello che lo tormenta una volta a casa potrebbe essere stress post-traumatico, ma anche un banale senso di colpa per aver più volte trascinato i compagni a morire in situazioni inutilmente pericolose. Malgrado gli effetti sonori, i siparietti domestici finiscono per farlo assomigliare a un qualsiasi workahoolic durante la crisi del fine settimana: ora che faccio? chi sono? perché non sono in ufficio/in cantiere/in prima linea? In ogni caso la soluzione al suo male di vivere non è così complessa: la fine tragica e assurda di Kyle avrebbe potuto fornire un finale molto più inquietante, ma Eastwood preferisce congedarsi con serenità, riuscendo se non altro a ottenere il massimo di patriottismo con il minimo di retorica.

 

American Sniper è ovunque – copritevi le spalle. Al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30).

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Turing: uomo o computer?

NON LO CAPISCONO PERCHE’ È DIVERSO (un’altra storia completamente inventata).

The Imitation Game (Morten Tyldum)

 

Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L’anno in cui Alan Turing – morto da 40, forse suicida – cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l’intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l’omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.

 

Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l’enorme “computatore” che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il  mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o “narrazione”, come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un “inventore del computer”, nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo – specie se l’alternativa vulgata è Steve Jobs.

 

In futuro magari rideranno anche della convenzione narrativa per cui l’unica matematica del mazzo dev’essere per forza una strafica.

Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent’anni potrebbe non reggere più – l’Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l’omosessualità vent’anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un’occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull’innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?

 

Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia). 

 

La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay; forse perché i manuali non individuano nessuna correlazione tra omosessualità e autismo, e quindi la doppia vita dello scienziato esce quasi del tutto dall’obiettivo. È la causa più probabile della sua tragica morte, eppure non c’è spazio in tutto il film non dico per una puntatina in un locale equivoco, un bacio, un abbraccio, ma nemmeno uno sguardo che tradisca desiderio; solo nei flashback dei tempi di Cambridge è consentito al giovane collegiale di avere una vita sentimentale. Poi basta perché sui manuali gli Asperger non ne hanno quasi mai. Solo l’amica fidanzata-schermo, perché è pur sempre un film e un posto per Keira Knightley bisogna trovarlo (ne vale anche la pena, diciamolo).

 

La narrativa ‘aspergeriana’ si ritrova a disagio con certi dettagli (anche il suicidio è solo un titolo in sovraimpressione) e ne cancella altri su cui avevano fantasticato i biografi più sensibili alle tematiche omo: scompare del tutto così la leggenda della “mela di Biancaneve”, secondo cui Turing, appassionato in modo ossessivo del film di Disney, avrebbe deciso di suicidarsi iniettando il cianuro in una mela. Tutto quel che si sa davvero è che c’erano i resti di una mela in cucina, ma Turing ne mangiava una al giorno. Però immaginate che spunto incredibile per un film: lo scienziato già brillante che contempla il suo corpo trasformato dalla castrazione chimica, il seno che gli sta crescendo, Specchio, Specchio delle mie brame…  No, niente da fare, è una cosa per niente Asperger. Non c’è spazio nemmeno per le derive complottarde (Turing era al corrente di segreti di guerra), eppure le circostanze del suicidio non sono del tutto chiare (forse l’ingestione o inalazione del cianuro fu del tutto incidentale). C’è spazio per una sola ipotesi portante: Turing ha inventato la Macchina perché sin da bambino non era in grado di comunicare coi suoi simili. 

 

Il Turing di Cumberbatch (bravissimo, va da sé) non sarebbe che l’ennesimo supereroe con superproblemi della stagione cinematografica. Lui solo può decidere quali battaglie vincere e quali perdere, perché non prova le emozioni dei normali mortali; un suo collega lo supplica di salvare il fratello nel mirino dei tedeschi (storia completamente inventata), lui non può. Non capisce il dramma dell’individuo, solo la statistica. La sua reazione alla violenza non è istintiva, ma mediata da un ragionamento, perché così fanno gli Asperger sui manuali, e pur di mostrarlo ci inventiamo la scena in cui un collega gli rompe il naso e lui continua la lezione. Questo film, che ha l’ambizione di presentarsi come un enorme test di Turing (Era un Uomo o un Calcolatore?) in realtà contiene in sé la risposta e il suo corollario: se fosse stato solo umano la guerra l’avrebbe persa. Per fortuna che il Messia dei Computatori si è fatto provvisoriamente uomo per darci la luce, il suo figlio Cristopher, padre di tutti gli ammennicoli digitali che abbiamo in casa. Fidiamoci di loro. Non capiscono le nostre battute, a volte si piantano e sono davvero irritanti – ma sono la nostra unica speranza contro il caos là fuori, in tutte le battaglie e i bombardamenti che ci aspettano. 

 

The Imitation Game è al Cityplex di Alba (17:00, 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione e buon Anno!

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Fassbender canta! (ma a Moncalieri lo doppiano).

In un qualche modo il mascherone riesce sempre a essere straordinariamente espressivo.

Frank (Lenny Abrahamson, 2014)

 

Otto mesi di reclusione in campagna, torture psicologiche e cibo razionato, sessioni di 14 ore; cosa succederebbe oggi a un folle come Captain Beefheart, se infliggesse ai suoi musicisti le privazioni che portarono la Magic Band a realizzare nel 1968 l’acclamato e invendibile Trout Mask Replica? Se tra i giovani adepti del guru musicale di turno ce ne fosse uno con uno smartphone e tanta voglia di condividere qualsiasi stravaganza su twitter o facebook, come andrebbe a finire? Il guru diventerebbe più o meno famoso? E per i motivi giusti o quelli sbagliati? Ma esistono motivi giusti?

 

Frank è un bel film di Lenny Abrahamson che gravitando intorno all’eterno conflitto tra genio e mediocrità, successo e integrità, ispirazione e malattia mentale, si permette di dire un paio di cose niente affatto banali. L’omonimo protagonista è il leader di una band avantgarde che non toglie mai la testa da una inquietante maschera di cartapesta (ispirata al personaggio di un cabarettista inglese, Frank Sidebottom – il film era nato come un biopic su di lui, poi ha preso tutta un’altra strada). Sulla sua strada incontra Jon, giovane tastierista alla ricerca del proprio talento, che forse semplicemente non esiste. Amadeus? Pallottole su Broadway? Siamo da quelle parti, ma c’è qualcosa di nuovo: i social network, per esempio. Due mondi entrano in collisione: Frank è un fantasma della storia del rock, ispirato ad artisti schizoidi come Captain Beefheart o Daniel Johnston (anche se Fassbender gli presta un timbro vocale vagamente Jim-Morrisoniano). Jon è un giovane due-punto-zero; se lo prendono a coltellate non si difende ma si fa un video-selfie e lo posta immediatamente su youtube. Tra i due non potrà mai funzionare, o no? Andatelo a vedere.

FASSBENDER SINGS! Le canzoni non sono davvero malaccio, se vi piace il genere.

Dove?

All’UCI di Moncalieri (15:25, 20:10, 22:35; ma cominciano sempre molto in ritardo).

Uh, lontano. In lingua originale, almeno? Perché è un film dove Fassbender recita in una maschera di cartapesta, passando da un momento all’altro dal semplice dialogo al canto. Quindi, insomma, in lingua originale avrebbe più senso…

No.

C’è solo a Moncalieri ed è doppiato.

Seh, vabbe’, chi voglio prendere in giro. 

Probabilmente è inutile lamentarsi – perlomeno, saranno dieci anni che ci lamentiamo – io a questo punto preferirei parlarne con qualcuno che ci lavora davvero, nella distribuzione, qualcuno che davvero sa come funzionano le cose. Perché non ne faccio mica una questione di integrità artistica, santo cielo, io se Interstellar esce il sei novembre in tutto il mondo non ho nessuna difficoltà a vedermi Interstellar doppiato. Ma anche se gli cambiassero il titolo, cosa vuoi che freghi a me. Mi dici che se lo intitoli Amore e Buchi Neri ci riempi dieci sale in più? Anche solo cinque sale in più? Ma figurati, per salvare la nobile industria del cinematografo puoi intitolarlo anche Se mi cucini ancora polenta io cambio galassia, mi farò una risata cogli amici su facebook ma poi ci vado lo stesso

 

L’originale Frank Sidebottom (persino più inquietante).

Ma me lo spiegate che soldi intendete fare con un film di nicchia come Frank, distribuendolo doppiato non solo a sei mesi dalla sua uscita in patria (non ci sarebbe niente di male), non solo quattro mesi dopo che lo abbiamo visto al Biografilm Festival di Bologna, ma due mesi dopo che è stato reso disponibile on line in Gran Bretagna? A quel punto è chiaro che cominceranno a circolare copie piratate perfette. È chiaro che qualcuno si prenderà la briga di sottotitolarle. E quindi, insomma, qual è il senso di uscire a novembre con Frank senza neanche farci sentire Fassbender che mugugna sotto la maschera? Che pubblico avete in mente, esattamente? Quelli che erano venuti per vedere De Sica nella sala di fianco e non hanno trovato poltrone libere? Perché quelli che invece avevano sentito parlare di Frank a questo punto l’hanno già visto anche due o tre volte comodi comodi a casa loro, risparmiando pure sette euro. Li vogliamo biasimare?

 

Sul serio: vorrei parlarci, con qualcuno che questi problemi se li pone di mestiere, e chiedergli se davvero siamo messi così male – va bene la crisi, ma gli studenti universitari in aperitivo dalle sette alle dieci, possibile che non ce li avessero sette-otto euro per vedersi Frank fresco, appena uscito? Vogliamo provare davvero a scucirglieli? Un film del genere, che tra le altre cose è un manifesto dello snobismo, sembra fatto apposta per attirare i puristi della versione originale e allontanare tutti gli altri. Se non lo hai capito, probabilmente non lo hai visto. E pazienza. Ma vuoi provare almeno a venderlo? Non dovrebbe essere il tuo lavoro? Boh. 

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Il Leopardi di Martone, più gobba che anima

No, sul serio, quale gobba?

Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014).

 

“Signor Conte, come va?”

“Male, illustrissimo, e voi?”

“Non c’è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito”.

“Sì, al mio solito”.

“Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa”.

“Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana…”

“Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d’oggi magari un chirurgo… perdonatemi l’impertinenza…”

“Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni”.

“Beh, magari potrebbe aiutarla con quella… quella gobba, insomma”.

“Gobba?”

“Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama”.

“Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui”.

“Per forza, l’avete sulla destra… o non era la sinistra?”

“Vi sentite bene, illustrissimo?”

“Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia”.

“Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero…”

“Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell’equilibrio nel discernimento…”

“…e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie”.

“Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?”

“Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo”.

“Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo”.

“Ah no?”

“No”.

“E di cosa stiamo parlando allora?”

“Di un film”.

“Ovvero?”

“Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna… hanno fatto un film su di voi, signor conte”.

“Sulle mie opere?”

“Su di voi”.

“Ahi”.

Allora mi raccomando, tu hai appena lasciato gli studi leggiadri e le sudate carte, invece tu hai gli occhi ridenti e fuggitivi e soprattutto canti sempre, sempre, non taci assolutamente mai.

“Capite insomma il problema”.

“Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?”

“Eh, tante cose… per esempio, quando voi componete l’Infinito”.

“Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell’idea del vago, dell’indefinito, che io stavo cercando di…”

“Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l’Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l’infinito”.

“E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?”

“Più o meno è così – salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona”.

“Ah. E lui… com’è?”

“Bravo, bravo, un po’ sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po’, ehm…”

“A me?”

“A Foscolo”.

“Eh, beh, naturale. E sulle spalle…”

“Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film”.

“Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo… come si chiamava?”

“Niccolò Tommaseo”.

“…si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?”

“Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l’inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto”.

“E Petrarca?”

“Petrarca è out”.

“Aut?”

“Out, fuori, finito, trionfo dell’oblio”.

“Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI”.

 

No ma giudicatemi pure per le mie idee, dai, provatecivi.

Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? Premesso che qualcuno prima o poi ci avrebbe provato, e che difficilmente avrebbe saputo fare qualcosa di meglio di Martone; l’intrepido Martone che con le sue spericolate ellissi e i suoi arditi anacronismi è l’unico che tenti di darci un’immagine dell’Ottocento che non puzzi lontano dieci miglia di fiction della Rai; che dunque insomma dobbiamo dirci fortunati che l’idea sia venuta a lui, e che Elio Germano si sia reso disponibile. Ma visto il risultato, pur coraggioso, non banale, senz’altro più cinematografico che televisivo, rimane la domanda: si poteva fare un film biografico su Leopardi? Un poeta che, finché ha vissuto, ha ripetutamente pregato i lettori di non giudicarlo per le proprie sofferenze e deformità, ma per le sue idee: può diventare l’oggetto di un film che non si concentri proprio sulle sue vistose deformità che per forza di cose ruberanno la scena alle sue idee? “Demolite le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che attaccarvi alle mie malattie“, scrive il conte in una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di letteratura per il liceo. Nel film, la frase diventa un grido che Leopardi prorompe chino su un bastone, in una gelateria, davanti a due parrucconi imbarazzati. Ci stiamo imbarazzando anche noi, certe cose un conto è scriverle in una lettera, un conto è gridarle in un luogo pubblico. D’altro canto: che altro poteva fare Martone? Rimuovere la gobba?

 

Forse sì. Perlomeno, se chiedete a me, io avrei lavorato di più sulle Operette morali – magari con un po’ di computergrafica: siparietti con mummie, gnomi e folletti, Atlante ed Ercole che si palleggiano il pianeta Terra, Cristoforo Colombo che ragiona con Gutierrez, il Sole con Copernico, la Moda e la Morte. Non è che Martone non ci provi, scolpendo nel fango millenario una Natura Matrigna o giocando sulle potenzialità horror di A Silvia. Ma alla fine la gobba si ruba il film, non poteva che andare a finire così. Magari Martone la considera un correlato oggettivo del disagio esistenziale, della solitudine dell’intellettuale, dell’insalubrità del milieu culturale italiano, e di chissà cos’altro; fatto sta che invece di girare un film sui pensieri di Giacomo Leopardi, Martone ne ha fatto uno sui dolori di Giacomo Leopardi. Probabilmente era inevitabile, ma non è comunque un tradimento? Forse era necessario, ma perché insistere proprio su uno degli episodi più imbarazzanti di una vita breve e difficile, il non-affaire con Fanny-Aspasia? Il Passero solitario, no. Le ricordanze no. Martone poteva darci un po’ di Quiete dopo la tempesta o di Ultimo canto di Saffo, ma no! Dopo averci mostrato nel primo tempo il Leopardi diciottenne ribelle, il Leopardi che scappa di casa, Martone doveva per forza mostrarci il Leopardi trentenne innamorato, il Leopardi ridicolo. Ora non nego che ci sia qualcosa di autentico e universale in tutto questo – nel modo in cui la stessa passione che a diciott’anni ci rende nobili, dai trenta in poi ci rende patetici – ma ci vuole comunque una certa dose di crudeltà per andare a pescare, nelle migliaia di bei versi che il conte ci ha lasciato, proprio quella manciata di svenevoli che nessuno saprebbe più a leggere senza ridacchiare, dal Consalvo

 

Oimè per sempre 

Parto da te. Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, 

Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria

Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio

Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo

In tutto il viver mio?

 

Qui i tre fratelli impazziti di gioia perché Pietro Giordani ha messo un like alle prime canzoni di Giacomo.

“Ma siete sicuro che questi versi li ho scritti io?”

“Li avete scritti voi, Conte, sono nell’edizione critica dei Canti”.

“Me li ero dimenticati”.

“Ce li stavamo tutti dimenticando volentieri”.

“Ma c’è qualche operetta morale, almeno?”

“C’è il dialogo tra la Natura e l’Islandese”.

“Ecco, quello sì che me lo ricordo bene! E la Natura com’è? Una gigantessa?”

“Una sfinge di pietra, con, ehm…”

“Va bene, va bene”.

“…la voce di vostra madre”.

“Di mia madre? E che c’entra mia madre?”

“Eh, è una lunga storia, diciamo che tra le novità del secolo XX vi è anche l’approccio psicanalitico ai testi letterari”.

“E in cosa consisterebbe questo approccio psico…”

“In sostanza si ritiene che lo scrittore porti con sé per tutta la vita i traumi della propria infanzia”.

“Potrei per certi versi concordare, ma…”

“…e li rovesci nei suoi scritti. Quindi, caro signor conte, se voi avete parlato di una Natura Matrigna, il critico del secolo XX ha buon gioco a dimostrare che in realtà state parlando di vostra madre, e di quanto poco sia stata affettuosa con voi”.

“Ma che c’entra? E poi io non ho mai parlato di mia madre…”

“Suvvia, c’è quella pagina dello Zibaldone così eloquente…”

“Ma ne parlo in terza persona, e saranno poi affaracci miei, o no?”

“No purtroppo signor Conte, nel secolo XX il poeta non ha più panni che non si debbano lavare in pubblico da personale altamente specializzato”.

“Mi state dicendo che le mie considerazioni sull’impassibilità della Natura sono contrabbandate come sfoghi personali causati dal fatto che mia madre non mi spazzolava i capelli? Siete veramente così morbosi e cialtroni, nel XX?”

“Siamo già nel XXI, ma, come dire, perduriamo”.

“Ma non potevate farmi fare la fine di Petrarca? Preferirei”.

 

Poi c’è la musica, che alterna Apparat e Rossini, un po’ come servire cracker al formaggio e Saint Honoré – non è che non funzioni, ma tra qualche anno non credo che sarà la Saint Honoré a suonare datata. Infine c’è quel tentativo di inserire una tematica omoerotica che davvero non si capisce che senso abbia – si spera non quello di rendere il poeta più attuale, più interessante. Sono quegli strani inserti martoniani che fanno sì che a fine visione la perplessità vinca su ogni altra sensazione – come la scena in Noi credevamo in cui Crispi mostrava la bomba Orsini ai mafiosi; qui c’è una lunga calata in un bordello infernale che in un qualche modo si riallaccia al primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Verso la fine in effetti il Leopardi martoniano sembra sfumarsi e giustapporsi a quel Caccioppoli: un flaneur che per i peggio vichi gioca a rimpiattino con la morte. Germano è coraggioso e bravo, tutto il cast si dà da fare, il prodotto è ben confezionato, ma ne valeva la pena? Il giovane favoloso è ai Portici di Fossano e all’Aurora di Savigliano alle 21:15. 

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Un Jimi noioso? Impossibile! Eppure…

Il Jimi vero con la Etchingham vera.

Jimi (All Is By My Side), John Ridley, 2013.

 

James Marshall Hendrix detto Jimi è uno dei più grandi musicisti del secolo scorso. Se la chitarra elettrica è uno strumento che si può suonare in un centinaio di modi diversi, a lui ne dobbiamo più o meno novantotto. Cresciuto in una famiglia disagiata, a 14 anni imparò il riff di Peter Gunn su un ukulele con una corda sola. L’anno dopo si procurò uno strumento. Quattro anni dopo lo arrestavano su una macchina rubata, anzi due. Un anno dopo era nell’esercito, paracadutista, vittima di molestie sessuali. Un anno dopo suonava per Little Richard. Cinque anni dopo era l’artista più pagato del mondo, dava fuoco alle chitarre, violentava l’inno nazionale. Un anno dopo era morto soffocato, e ne aveva 27. Scrivere e girare un film noioso su di lui sembrava impossibile. John Ridley ci è riuscito. Come diavolo ha fatto. 

 

Certo, farsi negare dalla famiglia i diritti delle canzoni può aiutare. Ma non basta – ricordate quando Todd Haynes riuscì a fare un film su David Bowie usando tutte le canzoni tranne quelle di Bowie – ecco, non sarebbe sufficiente nemmeno eliminare le canzoni per rendere Jimi Henrix noioso. Ci vuole qualcosa di più. Bisogna fare in modo che ogni volta che il musicista apra la bocca, sia per fare uscire cose irrilevanti come “Uhm”, “non saprei”, “d’altronde e così” – finché dopo qualche dozzina di scambi del genere, con interlocutori altrettanto ispirati, non sorga sulle labbra del generoso André 3000 uno di quei memorabili aforismi che ragazzini cercavamo setacciando i volumi Arcana con le traduzioni dei testi, per poi tracciarli con l’uniposca su quegli zainetti che ci avrebbero reso persone interessanti. QUANDO IL POTERE DELL’AMORE VINCERA’ SULL’AMORE DEL POTERE IL MONDO SARA’ UN POSTO MIGLIORE, amen fratello. Nel film Hendrix se ne esce con questa cosa in una discussione con due Pantere nere – loro vogliono trasformarlo in un artista engagé, ma non hanno fatto i conti con il Potere dell’Incarto del Cioccolatino Perugina!

 

Ci sono poi le donne; Hendrix ne ebbe diverse, com’è abbastanza ovvio che capitasse a chitarristi di bella presenza. Chitarristi, belle ragazze, droghe, Swingin’ London, adesso dimmi com’è possibile trasformare tutto questo in una storia noiosa. È appunto un’impresa per John Ridley. Lui sa che dietro a ogni uomo di successo ci sono una o due immense rompipalle che non fanno che prendersela perché lui non canta oppure canta troppo, non esce oppure esce troppo, non frequenta amici o ne frequenta troppi, non è in fondo tutto quello che abbiamo sempre sognato di vedere in un biopic su una delle più grandi rockstar degli anni Sessanta? Decine di minuti di groupies che si lamentano, sì, perdio! Niente sesso, solo lagne lagne e lagne, perché la nostra missione era rendere noiosa la vita di Jimi Hendrix, e Dio sa che ci siamo riusciti. In seguito potremmo girare un’ora e mezza di Adolf Hitler che si rilassa nella natura, perché no? La Noiosa e Pacifica Vita di Adolf, qualche premio in giro ce lo daranno senz’altro.

 

Ridley è riuscito persino ad attirare l’ira di un’ex convivente di Jimi, Kathy Etchingham, la cui versione cinematografica in effetti non fa che rompere l’anima, finché a un certo punto Henrix non la picchia a sangue in un locale. La Etchingham nega che sia mai successo; di Hendrix ha solo bei ricordi, era un ragazzo sensibile eccetera. Può anche darsi che si tratti di rimozione, e tuttavia la sua testimonianza è interessante perché il film sembrerebbe scritto da un punto di vista molto vicino al suo: una parrucchiera che ha l’opportunità di fidanzarsi con una rockstar un po’ ruspante e scoprire che la cosa non ti svolta la domenica pomeriggio, anzi. E però poi quando senti la vera Etchingham dire: ma siete matti? Macché parrucchiera, mio padre possiede mezza Irlanda, e di sicuro non ero quel tipo di ragazza che dice “fanculo” in mezzo alla strada, ecco: a quel punto ti domandi: ma allora chi è la vera parrucchiera, John Ridley? Chi è che aveva la biografia di Jimi Hendrix a disposizione e invece di raccontare di quella volta che per battere gli Who nel loro campo diede fuoco a una chitarra, o di quando per sbaglio buttò un patrimonio di cocaina nel sifone di un lavabo, o il successo, o la deriva, o la morte tragica; invece di tutto questo, decidi di fargli dire “uhm”, “gli uomini sono così”, “i marziani ci salveranno” e raccontare di come nel ’67 due tizie se lo litigassero?

 

In mezzo a tutto questo una manciata di scene che fanno ancora più rabbia, perché ti lasciano immaginare che film avrebbe potuto fare Ridley se la musica gli fosse interessata un po’ di più dei sentimenti e dei cartigli Perugina. Quando si fa invitare dal palco dei Cream, e ruba sventatamente la scena a Eric Clapton; e la storica cover di Sgt Pepper, in cui André 3000 può finalmente scatenare su un palcoscenico il Jimi che si era preparato. In quei momenti scivolano via dalla sua faccia anche quegli assurdi tredici anni in più. Jimi: All by my side è all’Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30. Oppure potete guardare un po’ di suoi video su youtube mentre litigate con la ragazza perché vuole essere accompagnata da Zara – che è più o meno la sensazione che voleva ricreare per voi John Ridley col suo film, grazie John Ridley. 

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Disney vince sempre

PL Travers e Walt Disney alla première di Mary Poppins (lui non l'aveva nemmeno invitata)
PL Travers e Walt Disney alla première di Mary Poppins (lui non l’aveva nemmeno invitata)

Saving Mr. Banks (John Lee Hancock Jr, 2013)

 

Poi, dopo settimane passate a cercare invano un titolo decente, dribblando robottoni e commedie in saldo di fine stagione, ti imbatti in un film che è bello davvero, con un cast ottimo e abbondante, una storia complessa e commovente, personaggi memorabili e riflessioni intelligenti sull’arte e sulla vita, e come ti senti? Preso in giro. Mentre si accendono le luci e ti asciughi le lacrime. Walt Disney ha colpito ancora.

 

Qualcuno stava cercando di fare un film su di lui, lui che ha fatto? Se l’è comprato. Avrebbe potuto mai esistere un film in cui Walt Disney non sia meno che geniale, amabile, visionario, gioviale? Un film in cui per esempio sia il cattivo che acquista i diritti di un personaggio letterario e se ne impossessa, caramellandolo per sempre e consegnando alle future generazioni una Mary Poppins  assai più stucchevole di quella immaginata dell’autrice? Le cose, in effetti, andarono così, ma non si può mostrare. Un film del genere stava forse per realizzarlo la BBC, ma appena l’ha saputo la Walt Disney se l’è comprato, e adesso è il film in cui un Tom Hanks perfettamente a suo agio nei panni di Walt spiega all’autrice che stravolgere Mary Poppins è doveroso e necessario, la cosa giusta da fare, per pietà filiale e per l’amore e il rispetto che si deve al proprio pubblico.  

 

Perfetti. (Curiosità: la Thompson si è fatta le ossa con la saga di Tata Matilde)

A quel punto è previsto che persino la lignea P. L. Travers si sciolga, acconsentendo più o meno a tutte le manovre che trasformarono la sua tata volante in un classico personaggio disneyano. Il risultato non le piacerà del tutto, ma il riscatto dell’arcigno Mr Banks – una proiezione del padre fallito e alcolizzato – la riempirà di lacrime, così come le sta riempiendo a noi. Toccante, ben scritto, e tuttavia le testimonianze in nostro possesso ci dicono che alla prima la Travers stesse piangendo, sì, ma di rabbia. Se si considera che non le piacevano né i musical né i cartoni animati, non è poi così strano. Nei fatti, non concesse più i diritti degli altri volumi (la saga di Mary Poppins consta in otto romanzi, scritti in un arco di cinquant’anni). Quando le fu proposta una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto maestranze britanniche – un bell’affronto ai fratelli Sherman, gli inventori di Supercalifragiliecc., Spazzacamin, Basta un poco di zucchero e tutte le altre. 

 

La bimba vien voglia di andare in Australia a strapparla da quella famiglia di disperati.

L’inganno è tanto più insopportabile quanto è ben confezionato. La Hollywood degli anni Sessanta è ricostruita con la solita stucchevole precisione filologica (persino i pupazzi di Topolino hanno il design preciso del periodo, quel pelo folto oggi inconsueto). Il plot ha ambizioni da thriller psicologico, per niente campate in aria. Gli attori danno tutti il meglio di sé, anche quelli con pochi secondi a disposizione. La piccola Annie Rose Buckley è meravigliosa, Colin Farrell ovviamente credibilissimo nel ruolo del cialtrone alcolizzato ma di fiere origini celtiche: ma su tutti trionfa Emma Thompson, che riesce a farci amare una persona insopportabile (il film merita una visione in lingua originale anche solo perché si possa apprezzare lo scontro tra l’accento californiano di Tom Hanks e il secco british english della comprimaria).

 

E così, ancora una volta, Walt Disney ha vinto. Non gli bastava essersi comprato la tata volante. Doveva mangiarsi anche l’anima dell’autrice. Assorbirla, purgandola di tutti gli aspetti francamente non disneyabili. L’ossessione per l’esoterismo si riduce a un buddha portatile su un comodino; i sospetti di bisessualità sono completamente eliminati – anzi per andare sul sicuro è stata eliminata la sessualità tout court. Persino la maternità. La Travers del film proclama di non avere mai voluto figli; quella vera ne desiderava talmente da andarsene a prendere uno in Irlanda. Dev’essere stato difficile rinunciare a una vicenda come quella di Camillus Travers, che a diciassette anni incontra all’improvviso un tizio che sostiene di essere il suo gemello, e scopre che è vero: sua madre aveva deciso di adottarne uno solo, su consiglio di un astrologo. Un episodio così cinematografico che soltanto la Disney avrebbe potuto ignorare. D’altro canto, dovremmo ammirare il coraggio di un film in cui per mezzo secondo Walt fuma (di nascosto, vergognandosi, e senza inalare). Un film in cui la Travers alla fine svela di preferire un goccio di whisky allo spoonful of sugar

 

La Travers con Camillus, il figlio adottivo. Sia lui che il gemello si sarebbero scontrati con l’alcool nella vita adulta.

Quello di Saving Mr Banks non è un semplice lieto fine: è il manifesto del Lieto Fine. L’esercizio manieristico di The English Teacher qui viene preso sul serio e messo in atto con abilità e precisione. Mentre piangiamo, un’incarnazione del più grande impresario del Lieto Fine viene a sussurrarci che piangere è giusto, e modificare i propri ricordi lo è altrettanto. Rimuovere i traumi, trasformare papà sadici e crudeli in deliziosi amiconi pronti a ripararci aquiloni in eterno. Il pubblico ha diritto di sognare, di piangere, di farsela cantare, eccetera. Qualcuno non è d’accordo? Si faccia avanti, dica il suo prezzo, compreremo anche lui. Tra vent’anni magari ci faremo un film in cui all’inizio non è d’accordo ma poi si commuove e vola via contento. Saving Mr. Banks è al Multilanghe di Dogliani giovedì 24 luglio alle 21:30.

 

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La rabbia è faticosa

Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours
Party People 
gli vorrei bene anche se stesse di spalle
per tutto il film.

Philomena (Stephen Frears, 2013)

 

Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni…

 

Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L’Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?

 

Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però ‘ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d’infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati – come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un’anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori – ci credereste? Eppure è così. Avete sentito dire, poniamo, di Mauro Inzoli?

 

La vera Philomena (si chiama davvero così) ricevuta dal capo della ditta.

Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state “eseguite rigorose ricerche”. Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.

 

Quando l’anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po’ scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.

 

Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.

Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l’amministrazione del perdono – e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l’anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.

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Non stacco gli occhi da te

I veri Four Seasons, al culmine del loro successo e del loro debito con la mafia di Broccolino.

Jersey Boys (Clint Eastwood, 2014)

 

C’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui i cantanti non si gonfiavano la fedina penale al microfono per giocare ai personaggi scomodi; tutto il contrario. Erano tempi peggiori di adesso, che ti credi? Sotto tutta la brillantina, bernoccoli e cicatrici prese in strada o in famiglia; eppure appena salivi su un palco, anche minuscolo, tutto la fetenzìa spariva come un incanto, e tornavi a essere il bello di mamma tua capace di sciogliere in lacrime i mammasantissima del quartiere e le liceali alla prima libera uscita. Elvis era a militare, i Beatles non erano ancora arrivati, l’America ingannava il tempo sprofondando nella melassa dei quartetti vocali. I Four Seasons qui da noi non li ha sentiti nominare quasi nessuno, forse per lo stesso motivo per cui nessuno ti serve le fettuccine Alfredo o la pizza ai peperoni; ma in quella manciata di anni andarono fortissimo. La risposta italoamericana ai Beach Boys – voi non ne avreste sentito il bisogno, ma milioni di acquirenti di 45 giri evidentemente sì. Dopo anni di gavetta errabonda tra bowling e pizzerie del New Jersey, una sera fatidica trovarono la formula di un doo-wop all’italiana che li portò in cima alle classifiche e in tutti juke box del Paese. Poi ci furono i passi falsi e gli scazzi del caso – e la British Invasion non aiutò – ma dovettero passare cinquant’anni e un musical a Broadway prima che il pubblico scoprisse che quei quattro figurini impomatati e adorabili erano avanzi di galera. Come si evolvono i costumi – oggi se scoprono che sei in cella il tuo disco va in cima alle classifiche, vabbeh, per quel che contano oggigiorno le classifiche…

 

 

“La battaglia del secolo”. Chissà chi ha vinto, poi.

Jersey Boys è in parte la trasposizione cinematografica dello show di Broadway. Eastwood riprende, senza crederci troppo, la struttura narrativa dello show (quattro atti, quattro “stagioni” raccontate ciascuna da un diverso componente della band, con punti di vista discordanti), ma per fortuna mia e vostra non gira un musical. Si potrebbe dire che più della musica gli interessi raccontare una storia, ma non sarebbe giusto: è anche grazie alla sensibilità musicale del regista di Bird che il film riesce nell’impresa di farci interessare e affezionare a un’era musicale che seppelliremmo volentieri, ai coretti frastornanti e agli stucchevoli gorgheggi in falsetto di Frankie Valli. Tutte le coreografie del film, brevi e spettacolari, non valgono la sequenza in cui Bob Gaudio si presenta in un bar ai suoi tre futuri compagni con uno spartito stropicciato, che diventa di colpo una jam session, e prende progressivamente la forma della canzone che Bob nemmeno sognava. Il successo è ancora lontano, ma la musica c’è. Un’ora dopo un Frankie Valli intristito dagli anni e dalle delusioni solleverà un sipario e ci mostrerà l’orchestra dei suoi sogni – che decisamente non sono i nostri, noi Love Boat l’avremmo affondata con tutto l’equipaggio, ma se sapete resistere al bridge di Can’t Take My Eyes Off Of You vi compatisco sinceramente. Eastwood muove la macchina tra i tavolini di un ristorante e ci illustra la semplice verità: la canzone di successo non è la più originale o la più elaborata; è quella che riconosci già a metà del primo ascolto, quella che riesci a cantare a partire dal secondo ritornello.

 

 

I Four Seasons finti, tutti bravissimi.

Forse vale lo stesso discorso anche per Jersey Boys. Non è il film perfetto che continuiamo ad aspettarci dall’ottuagenario Eastwood, ma in giro c’è di meglio? La storia la conosciamo già; dalla metà in poi riusciremmo quasi a raccontarcela da soli; ma di chi è la colpa se i cantanti di successo partono sempre dalla gavetta, si sposano troppo presto, commettono più o meno sempre gli stessi errori, li pagano e si rialzano come possono? Eppure se dovessi indicare il biopic musicale più divertente e riuscito degli ultimi anni, non avrei esitazioni: Clint Eastwood mi ha fatto stare in pena per Frankie Valli. Ora vado a picchiare la testa contro il muro, che pare sia l’unico modo per scacciare da lì i coretti di Sherry Baby. Voi invece andate a vedere Jersey Boys, è un bel film che vale la pena di ascoltare in sala. Alla fine vorrete bene persino ai titoli di coda.

 

 Jersey Boys è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30. Buona visione e buon ascolto!

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Noè senza animali

Noè è uno dei personaggi più patetici di Bible Fight, se riesci a vincere con lui sei veramente bravo. Il suo colpo segreto è un fischio con cui chiama tutti gli animali del mondo e ti calpestano.

Noah (Darren Aronofsky, 2014)

 

Settantacinquemila anni fa, più o meno, potrebbe essere successo qualcosa di molto brutto. La specie umana, già in circolazione da centomila anni, con la sua spiccata propensione a dilagare, si sarebbe praticamente estinta. Si sarebbero salvati pochissimi esemplari, qualche migliaio appena: tra loro vi sarebbe anche l’Adamo Y-cromosomale, ovvero il tizio di cui siamo tutti pro-pro-pro-nipoti. Da non confondere con l’Adamo della Bibbia. Che cosa può essere successo di così terribile? In realtà, conoscendo un po’ madre natura e la sua fantasia in fatto di catastrofi, abbiamo soltanto l’imbarazzo della scelta: meteoriti, glaciazioni, eruzioni vulcaniche – l’ipotesi più famosa combina le ultime due: durante un periodo già mediamente freddo, un enorme vulcano in Indonesia avrebbe disperso nell’atmosfera miliardi di tonnellate di diossido di zolfo, abbassando la temperatura di 15°C per qualche anno. Noi discendiamo dai sopravvissuti e chissà, forse ne siamo consapevoli. In qualche oscura cella del nostro bagaglio genetico potrebbe resistere l’informazione ancestrale: ce l’abbiamo fatta. Con qualche deduzione elementare che ne consegue: Dio ci vuole bene. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno; ma forse la maggior parte della nostra specie è più incline a pensare: ehi, Dio ci voleva tutti morti e ce l’ha quasi fatta. Dunque questo Dio ci ama o no? Siamo i prescelti o una semplice eccezione nel Suo piano? Cosa avevano fatto di male gli umani per meritare un castigo del genere? Potrebbe ricapitare?

 

Preferisco.

Noah è un vecchio sogno nel cassetto di Darren Aronofsky, un regista – per quel poco che mi riguarda – ancora difficile da decifrare. Senz’altro dove passa lascia il segno, ed è passato già in molti generi diversi. Però i segni fin qui non si lasciano comporre. A meno di non voler scrivere che Noè, come il Cigno Nero e il Wrestler, è un eroe completamente succube del suo destino – ok, l’ho scritto. C’è un momento molto intenso, in un film che sfida continuamente il ridicolo (e non sempre vince), in cui cade una specie di maschera dal volto patriarcale di Russel Crowe, e finalmente ne intravediamo l’essenza di automa: il Creatore non l’ha scelto perché è buono, ma perché è determinato. Farà qualsiasi cosa il Creatore gli chiederà. Noè, l’eroe più popolare della Genesi, l’unico patriarca che tutti i bambini conoscono, e ha pure un numero con Paperino in Fantasia 2000; Noè, ci mostra Aronofsky, è complice di un immenso genocidio. Poteva riempire l’arca di esseri umani. Poteva prendersene almeno cinque o sei in più, giusto per una questione di pool genetico. Cosa può dire la sua progenie in sua discolpa? Che eseguiva gli ordini? 

 

Ciao, sono Eva Mitocondriale, chi l’avrebbe detto mai.

Noah (titolo non tradotto, immagino per ridurre al minimo le possibilità di una polemica con le autorità ecclesiastiche) ha un problema che credo si possa porre nei termini di un quattordicenne all’uscita dalla sala: dove sono gli animali? Ce ne sono pochi, tutto sommato. Tragicamente pochi per un film hollywoodiano dal budget non risibile, che racconta la storia dell’arca di Noè! E tuttavia avrebbe potuto essere un gran film. Alcuni spunti buoni c’erano: l’idea di combinare creazionismo e big bang in una sola, rapidissima, storia dell’universo in soggettiva; l’intuizione di un mondo alla Mad Max, arcaico ma già agli sgoccioli. Uno psicopatico vegano vive con la sua famiglia isolato da un mondo di carnivori. Le sue riflessioni solitarie sul mistero della creazione lo portano a una conclusione allucinata ma inesorabile: l’umanità degenerata è sul punto di essere cancellata dalla terra. E poiché il Creatore ha già mostrato in precedenza una manina un po’ pesante, meglio aiutarlo a salvare le altre specie viventi, innocenti. Costruire un’arca, chiudersi dentro, aspettare il Diluvio che senz’altro verrà. Un film del genere non sarebbe straordinariamente attuale? Quando Emma Watson, che Dio la benedica, rivelò che il film di Aronofsky poteva essere ambientato nel passato come nel futuro, io per un po’ ci ho sperato: un Noè fantascientifico. Perché no, dopotutto Noè è in ciascuno di noi. È una sindrome che ci portiamo dentro, forse un senso di colpa: perché proprio noi siamo sopravvissuti? E senz’altro è un’oscura percezione del pericolo che ci porta a immaginare e magari a concepire catastrofi. Alle nostre latitudini poi, il diluvio è davvero un’opzione da non scartare: forse il riscaldamento globale busserà alla nostra porta sotto forma di precipitazioni sempre più torrenziali, fiumi in piena, allagamenti eccetera. Noah avrebbe potuto essere il film che prende spunto da una paginetta di Bibbia (integrata coi midrashim, a quanto pare) per parlarci di noi. Poteva farcela. E invece.

 

E invece? Eh. 

Potrei restare un po’ qui a gustare queste deliziose rocce… ma il mio agente mi ha trovato una parte a Hollywood, quando mi ricapita.

Gli uomini di pietra. 

 

Forse non è colpa di Aronofsky. Ateo di origine ebraica, ma soprattutto newyorchese, che volete che ne sappia dell’importanza della Storia Infinita nell’immaginario dei sui coetanei europei. Magari non ha neanche visto il film. Altrimenti forse non gli sarebbe venuta l’idea, invero piuttosto bizzarra, di subappaltare l’Arca a dei mostri di pietra a sei braccia, miseri resti delle schiere angeliche. Ora, lascia perdere il piccolo particolare che tutto questo nella Bibbia non c’è (e però è anche un segno dei tempi: non credo fosse mai successo che un film di Hollywood si prendesse licenze del genere con l’Antico Testamento in un film serio, in qualcosa che non è una dichiarata parodia). Il punto è che, oltre a non esserci nella Bibbia, i mostri di pietra ci sono nella Storia Infinita, il che complica terribilmente la visione a uno spettatore europeo che si sforzi di prendere Aronofsky sul serio. Dopo i mostri di pietra ti aspetti di tutto, cani volanti e spade laser – una spada del genere in effetti c’è. Dovendo allungare il brodo, il regista ha deciso di usare ingredienti fantasy, e per quel che mi riguarda questo chiude la questione sul film. Bibbia e fantasy assieme riuscirei a concepirle soltanto in un film che si proponesse di prendere in giro entrambe, e purtroppo non è il caso.

 

La Bibbia di John Houston continua a dare i punti a tutti, a 50 anni di distanza – e senza effetti digitali.

Inevitabile ritrovarsi, dopo mezz’ora, a ridere di Cam che in mezzo a tanta distruzione biblica ha il più puberale dei problemi (non riesce a trovare una ragazza), e soprattutto a tifare per i figli di Caino, colpevoli di null’altro che di essere uomini e di comportarsi come tali, crescendo e moltiplicando fino alla devastazione del loro habitat, di qualsiasi habitat. Meritiamo il diluvio per questo? Ovviamente sì, ma il Creatore non ha qualche responsabilità? Non poteva progettarci meglio? Se ci ha fatti a sua immagine, si era visto prima allo specchio? Forse ci ha creati per questo, e i vulcani che ogni tanto esplodono non sono che foruncoli strizzati con disgusto. 

 

Noah è al Fiamma di Cuneo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45); al Cityplex di Alba (in 2d alle 17:00, 19:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45; in 3d alle 14:25, 17:15, 20:05, 22:45); al Vittoria di Bra (in 3d alle 16:00, 18:30, 21:15); al Multilanghe di Dogliani (in 2d alle 16:05, 18:45, 21:30); ai Portici di Fossano (in 2d alle 16:00, 18:30, 21:30); all’Italia di Saluzzo (in 2d alle 16:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (in 2d alle 16:00, 18:45, 21:30). Facevo prima a scrivere dove non c’è. Buona Pasquetta!

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Dodici anni di solitudine

Tornò a casa, scrisse il libro, fu invitato a molti reading, forse aiutò diversi schiavi fuggitivi, denunciò invano i suoi sequestratori, e un giorno scomparve. Nessuno sa dove. Forse lo presero gli schiavisti. Forse dopo dodici anni così non riusciva più a stare in famiglia. Chi lo sa.

12 anni schiavo (12 Years a Slave, Steve McQueen, 2013)

 

Una sera hai bevuto troppo. Ti svegli in catene e scopri che non sei più un essere umano. Ora sei una massa di muscoli senza storia o diritto di parola, a cui è consentito solamente sopravvivere. Un lotto di carne evasa da rispedire in Georgia; la tua famiglia non saprà mai più nulla di te. Perché ci sono così pochi film sulla schiavitù? Wikipedia ne conta appena una trentina, inclusi titoli che hanno poco a che fare con gli schiavi d’America. La stessa fonte conta 180 film sulla Shoah, esclusi i documentari. Perché la schiavitù è nove volte meno cinematograficamente interessante? È semplicemente l’effetto di un senso di colpa ancora non rielaborato dal pubblico bianco americano? Forse c’è qualcosa di più, se anche l’afro-britannico Steve McQueen ha preferito affidarsi a una fonte eccezionale come l’autobiografia del “free negro” Solomon Northup. Nato libero nello Stato di New York, carpentiere e violinista, Northup nel 1841 è vittima di un sequestro di persona. La sua identità viene cancellata e sostituita con quella di uno schiavo fuggitivo. Northup (Chiwetel Ejiofor, che debuttò con Amistad e difficilmente sarà mai più tanto vicino all’Oscar) non è il solo ad avere perso la sua libertà in questo modo, ma è tra i pochissimi che riuscì a riconquistarla, dopo dodici anni, e l’unico che pubblicò la sua storia. C’è persino chi ha criticato McQueen per avere scelto un’angolazione tanto particolare: l’avventura di Northup è una traiettoria eccentrica rispetto alla storia del popolo afroamericano. I suoi compagni di schiavitù sono satelliti lontani con cui è entrato in contatto per un fatale errore, e che non potranno seguirlo verso la libertà. Ognuno – ce ne accorgiamo più volte nel film – ha un suo destino che non può essere diviso con altri.

 

E d’altro canto Northup ha il grosso pregio di assomigliare a noi, nati liberi, terrorizzati dalla sola idea di perdere il nostro status. Solo il suo punto di vista poteva fornirci quel biglietto per l’inferno (e ritorno) che McQueen voleva staccare. I film sulla schiavitù, forse, non si fanno perché è difficile riuscire a sintonizzare il pubblico sulla stessa onda delle vittime: con la Shoah è più facile? Ma anche nei migliori film sulla Shoah (Spielberg, Polanski), fate caso all’importanza di quei momenti in cui il cittadino medio-borghese scopre all’improvviso di aver perso il suo status di essere umano. McQueen aveva bisogno di qualcosa del genere: mostrarci un afroamericano educato, una bella casa, splendidi figli, una moglie intraprendente. La stragrande maggioranza dei neri nati schiavi non aveva nulla di tutto questo, ma noi non riusciremmo a empatizzare con gente nata e morta nelle baracche. Tarantino ha risolto lo stesso problema inventandosi un pistolero supercool, ma solo a Tarantino è concesso di risolvere in questo modo i problemi.

 

I suoi schiavi li tocca continuamente. Vorrebbe possederli di più, neanche lui sa come.

Il punto è che se non esiste nel film un nero eccezionale, educato come Northup o esplosivo come Django, lo spettatore rischia di identificarsi più facilmente coi bianchi – dal momento che è molto spesso un bianco anche lui. Magari non vorrebbe, perché è uno spettatore civile e democratico, ma non è così difficile sentirsi addosso i panni dello schiavista buono e imbarazzato (Cumberbatch), o del carnefice frustrato (Fassbender). Quest’ultimo sembra proseguire il viaggio nella solitudine intrapreso nel precedente film di McQueen, Shame: il coito è ancora una volta un combattimento facile che ti lascia vincitore di un corpo inerte e sconosciuto. Non sorprende che McQueen abbia reso espliciti i rapporti tra lo schiavista e la schiava Patsey (Lupita Nyong’o), a cui il testo del 1853 alludeva soltanto. Più curiosa è la scena – molto intensa – in cui Patsey chiede a Northup di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze. Neanche questa c’è nel testo originale, forse. Dico forse perché può darsi che lo sceneggiatore John Ridley abbia equivocato un passo del libro in cui era la moglie del padrone, gelosa, a chiedere a Northup di uccidere Patsey. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l’alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto.

 

“Dunque, dovresti pronunciarla più o meno così”.

12 anni schiavo è un film che ti mostra cose orribili con una fotografia smagliante, dove tutti – negrieri, schiavi incolti, carpentieri – parlano un inglese stampato, di gusto ottocentesco, che il doppiaggio fatalmente tradisce. È un dettaglio iperrealista (sul set c’era anche un esperto di accenti del XIX secolo), che finisce col rivoltarsi nel suo contrario: non sembra vero che tutti parlassero così. Il libro è ovviamente scritto in un inglese del genere (fu riveduto e corretto da editori bianchi abolizionisti), ma gran parte dei dialoghi non sono riportati in forma diretta. Qualcuno storcerà il naso: quanto a me in questo caso ho preferito l’eloquenza al realismo. Non mi importa se i veri schiavi e i veri negrieri balbettavano: mi sembra giusto che McQueen e Ridley trovino le parole appropriate per ciascuno di loro. Il discorso che mi ha convinto di meno è l’unico che è fedelmente ripreso dal libro: quello di Brad Pitt, il ricco attore-produttore bianco senza il quale un film così difficile non sarebbe mai stato girato. Gliene siamo tutti grati, ma forse avrebbe potuto risparmiarsi il cattivo gusto di comparire sul finale nel ruolo dell’eroico salvatore. In un film dove Giamatti o Paul Dano si contentano di stare cinque minuti in scena e dar voce a odiosi negrieri, Brad doveva proprio riservarsi l’unico ruolo positivo?

 

Eppure il suo discorso ha una funzione fondamentale. A differenza di quel che può lasciare intendere la locandina, Northup non tenta mai la fuga. Un tentativo narrato nel libro viene rimosso nella sceneggiatura. L’unica strada verso la libertà ammessa nel film è quella interiore: Northup deve rimanere umano, ricordare la sua libertà, i tempi in cui sapeva leggere e scrivere: finché dopo dodici anni di solitudine finalmente il caso gli mette davanti un uomo che questa umanità la sa riconoscere. Quest’uomo è Brad Pitt, e il suo discorso dice, semplicemente, che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Lo ha scritto Jefferson in cima alla Dichiarazione. Ma è d’accordo anche lo schiavista Fassbender, salvo ribadire che i negri non sono uomini. Chi ha criticato la mano leggera di McQueen nei confronti della religione (strumento di asservimento degli schiavi…) forse non ha fatto caso al fatto che anche il fondamento dell’uguaglianza, più volte difeso nel film da Northup e da altri, è religioso: senza nozioni di evoluzionismo o dna, l’unico garante di questa uguaglianza è quell’Ente supremo che Jefferson prudentemente aveva lasciato in controluce. Siamo tutti uguali perché Lui ci ha creato così: è davanti a lui che lo schiavista dovrà rispondere di aver frustato una povera ragazza. Forse non è lo stesso dio arcano evocato dagli schiavi negli spiritual, ma è ancora oggi un assioma che la società non discute, non se lo può permettere. Tutto il resto sono dispute nominalistiche, anche oggi, quando ci diciamo convinti che tutti i cittadini siano uguali – ma non tutti sono degli di essere chiamati nostri concittadini. Quelli che raccolgono i pomodori per pochi euro alla giornata quasi sicuramente non lo sono. Possiamo passare due ore al cinema a vedere un film di schiavi senza neanche sprecare un pensiero per loro.

 

12 anni schiavo è al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Aurora di Savigliano (21:15).

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HIV Texas Cowboy

Ok, magari non qui, ma in certe scene è sexy vi giuro.

Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013).

 

Dottore, te lo dico un’ultima volta: posa quella siringa e lasciami andare. Non sono una delle vostre cavie fottute. Non è ancora mutato il retrovirus che si porterà Ron Woodroof nella tomba. Forse avete sentito parlare di Dallas Buyers Club come del film in cui un bellone di Hollywood riscatta un passato di orribili commedie romantiche in serie, perde millanta chilogrammi e si sistema in uno dei ruoli preferiti dalla giuria degli Oscar: il sieropositivo macilento ma non domo. E a questo punto magari in voi sta già suonando un allarme: film ricattatorio, buoni sentimenti, moribondi che si abbracciano con soprani in sottofondo. Disattivate quell’allarme. Dallas Buyers Club è un western. E Matthew McConaughey (che è sempre stato un ottimo attore; purtroppo le commedie romantiche pagano di più) è un vero Texas cowboy a cui puoi togliere tutti i chili che vuoi – gliene restano abbastanza per mandarti al tappeto. Gli sguardi che ogni tanto gli riserva il transgender Rayon (Jared Leto, anche lui memorabile) sembrano tradire il punto di vista del regista: troppo facile commuoverci con sieropositivi gentili o raffinati, oggi soffrirete e piangerete per un puttaniere omofobo che puzza di rodeo e vive in una baracca.

 

Voglio però ricordarti com’eri (Uno studio comparato delle locandine dei suoi film, da Cracked.com)

Com’è vero che la morte tira fuori qualcosa di diverso in ogni uomo. All’inizio del film Ron ha un mese di vita e potrebbe benissimo spenderlo in coca e spogliarelli. E invece lo ritroviamo in biblioteca davanti a un lettore di microfilm (la postazione internet degli anni Ottanta). Da spacciatore di sostanze “non approvate” a uomo d’affari, contro un nemico che è sempre meno l’Aids è sempre di più lo Stato, l’odioso tiranno che impedisce a ogni buon cittadino di curarsi e arricchirsi come vuole. Ron è talmente texano che a un certo punto chiede un’ordinanza restrittiva per il governo federale –  gli Stati Uniti d’America devono stare lontani dal suo motel!

 

Qui è quando s’innamora e noi con lei

Prima di diventare un film, Dallas è stato un soggetto proposto e rifiutato per vent’anni. Affinché la “storia vera” diventasse una storia vendibile, è stato forse necessario rendere Ron molto più cowboy di quanto non fosse l’originale: metterlo in groppa a un toro (benché appassionato di rodeo non ne cavalcò mai uno), togliergli la figlia, affinché in una scena topica rimpiangesse di non averne mai avute; enfatizzarne l’omofobia, tema caro a Vallée; e soprattutto mettergli contro l’intero Dallas Mercy Hospital, il ranch dove i malvagi dottori sperimentano intrugli nocivi per arricchire le multinazionali.

 

Farfalle.

Le cose sono ovviamente più sfumate di così; persino nei titoli di coda si ammette con una certa onestà che l’AZT, il veleno che secondo Ron stava facendo una strage, è ancora oggi uno degli ingredienti del cocktail di farmaci che tiene in vita milioni di sieropositivi. E d’altro canto la macchina farmaceutica, vista dall’individuo, è davvero un Moloch spaventoso contro cui ribellarsi: Ron ha la sfortuna di ammalarsi nel momento in cui i sieropositivi cadono come mosche, le multinazionali stanno cominciando a sperimentare farmaci su di loro, e il rischio di accelerarne la morte è calcolato. Di fronte a un destino tagliato così male, Ron si ribella e ha almeno la fortuna di trovare la persona giusta: in una clinica messicana, un medico radiato ma ancora abbonato a Lancet, che gli fa provare il peptide T, non ancora approvato negli USA. Pensa se invece incontrava un Vannoni. 

 

“Matthew McConaughey… GHIGNA STUPIDAMENTE PER 90 MINUTI!” “Esatto, è tutto quello che succede” (NY Times). (Da Cracked.com).

In effetti quello che può lasciare disorientati alla visione di Dallas non sono gli aspetti ripugnanti dell’eroe – a quelli siamo abituati, al cinema e soprattutto in tv è una gara a chi ci propina l’eroe più moralmente discutibile. È che Dallas è un film che mette in discussione le istituzioni farmaceutiche; il che può avere un senso in generale, ma si adatta male al nostro essere spettatori italiani negli anni ’10, in una fase di particolare recrudescenza di santoni e ciarlatani. Almeno Ron non ha mai chiesto allo Stato di rimborsare i farmaci che trafficava.

 

Dallas Buyers Club è al Vittoria di Bra alle 20:15 e alle 22:30 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10; francamente non so se resisterà oltre giovedì (magari poi torna nelle sale dopo gli Oscar). È il tipico film di nicchia che molti preferirebbero guardare in lingua originale. Non abbastanza per farlo programmare in una sala della provincia di Cuneo, questo si sa. Ma abbastanza per rendere la versione sottotitolata in streaming un’alternativa interessante, ancorché illegale. Come può difendersi la distribuzione italiana da una concorrenza così sleale? Magari una settimana dopo il debutto nelle sale americane si potrebbe mettere in commercio una versione on line sottotitolata: qualche spilorcio continuerebbe a rubare, ma molti pagherebbero volentieri anche sei o sette euro, come al cinema. Oppure si può lasciare tutto com’è, doppiare l’accento texano di McConaughey, e terrorizzare i potenziali ladri di contenuto con qualche spot terrorizzante all’inizio dei dvd. Se hanno scelto questa seconda strada si vede che funziona.

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Nani, pasticche, mignotte, Scorsese

C’è senza dubbio una metafora, ma FUCK YEAH NANI AL BERSAGLIO

The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013)

 

Se il sesso è droga; se il denaro è droga (la più forte di tutte);  se la cocaina, non c’è dubbio, è droga: riesci a immaginare una scena più drogata di Leonardo Di Caprio che tira cocaina dal fondoschiena di una puttana con banconote arrotolate? Non credo che gli daranno l’oscar per questo. Non credo che gliene fotta più di tanto. The Wolf of Wall Street sembra una riunione d’affari finita male, o bene, dipende dai punti di vista. All’inizio c’erano delle idee sul tavolo, si trattava di prendere la biografia di un lupo della finanza e magari approfittarne per qualche metafora sulla società, sulla corruzione non più solo economica ma esistenziale, fisiologica, la speculazione che entra nelle vene e brucia le tue cellule, corrompe e distrugge le parole che ti escono dalla bocca… finché qualcuno probabilmente non ha mascherato uno sbadiglio e qualcun altro deve aver detto Ehi, perché non facciamo un break? Giusto dieci minuti. Una mezz’ora. Un martini. Una pista. Perché non chiamiamo un paio di mignotte? Un paio a testa, intendo. E un deejay? Uno scimpanzè? Due nani da lanciare contro un bersaglio? Tre ore dopo il baccano era tale che i vicini hanno chiamato i federali. Ma chi è che ha cominciato? Chi è che ha mandato tutto, non figurativamente, a puttane?

 

Alè, baracca.

Io un sospetto ce l’ho, anche se probabilmente è sbagliato. Cosa ci faceva Jonah Hill a quel tavolo? Da quando in qua è entrato nella cumpa di Scorsese? Chi l’ha invitato? Sorpresa: si è invitato da solo, accettando il minimo sindacale. Hill è un attore davvero simpatico, fisiologicamente portato a ruoli di commedia, al punto che gli basta mettere il naso fuori da un cappuccio kkk in Django per trasformare all’istante l’omaggio di Tarantino a Griffith in uno sketch di Monty Python. In questo film però gli tocca un ruolo cruciale che una generazione fa Scorsese affidava quasi sempre a Joe Pesci: il deuteragonista, l’amico che prima o poi tradirà l’eroe o ne sarà tradito. Hill ovviamente non ha quella luciferinità mediterranea che Pesci portava con sé sul set: d’altro canto questo è un altro ambiente, la finanza, un altro tipo di mafia (non meno micidiale, voleva dirci Scorsese? Ce lo voleva dire? Ehi, c’è qualcuno che mi sta ascoltando qua dentro? Chi è che ha invitato le majorettes, fuck). Hill non può che essere un simpatico pacioccone, che si sposa la cugina perché i bambini del quartiere cominciavano a guardarla; che prima di incontrare l’anticristo della speculazione gestiva, naturalmente, un negozio di giocattoli. Anche la sua tossicodipendenza ha un carattere infantile: l’iniziazione al crack in un cesso di ristorante è la trasformazione di due adulti in dodicenni. Tutto questo è verosimile e altamente simbolico (la speculazione è una regressione a uno stato di egotismo infantile, fuck), ma è anche necessario, perché Hill arriva alla corte di Scorsese dopo anni di commedie da sballati (Superbad, Facciamola finita), insomma il pacioccone che si droga è ormai il suo ruolo specifico.

 

Ma quanto si saranno divertiti

Inserito in un film di Scorsese, però ha un effetto imprevisto; ci aspettavamo una torbida epica di squali della finanza, ci ritroviamo con due ore e mezza di orge e fattanze, e alcune delle scopate più tristi e squallide mai messe in pellicola. In mezzo a gente che sniffa e scopa a caso più volte distinguiamo Di Caprio che fora la quarta parete cercando di spiegarci la genialità di un qualche trucco da speculatore… per interrompersi quasi subito: dai, non ci capite nulla e non ve ne può fregar di meno, beccatevi un’altra scena di pasticche e mignotte. Bring on the dancing girls! Tutto ha senza dubbio un valore simbolico, ma dopo un po’ viene il sospetto che Scorsese abbia semplicemente voluto girare la stoner comedy più grossa e costosa di tutte. Avete presente quei film che vanno molto adesso, di maschi più o meno giovani che fanno festa a Vegas o altrove, ecco, come se Scorsese si fosse detto fuck, lo so fare anch’io un film così. Maledetto Jonah Hill, sei stato tu? Non si vanno a disturbare gli anziani registi ufficialmente disintossicati, lo sai che prima o poi ci ricascano. Hill in un film di Scorsese è come aggiungere al solito mix di sostanze una vecchia pillola degli anni Ottanta che chissà se fa ancora qualche effetto.

 

A volte sembra Pain and Gain, cioè Micheal Bay che cerca di imitare Scorsese.

Eccome se lo fa. In fin dei conti Scorsese le stoner comedies le faceva già quarant’anni fa – in realtà non erano affatto comedies, ma Mean Streets o Who’s Knocking at My Door erano già, indubbiamente, film stonati: centrati su compagnie di amici che perdono tempo a bere e a donne, al punto che potremmo persino riconoscergli la paternità del genere – la soggettiva raso pavimento non l’ha inventata lui? A Scorsese quella roba piace da sempre, gli è congeniale tanto quanto la mafia o i falsi racconti di formazione. Questo rende The Wolf forse il film più quintessenzialmente scorsesiano di tutti: è la biografia (Toro Scatenato, Casino, The Aviator) di un personaggio deviato sin dalla prima scena (Taxi Driver, Re per una notte, Goodfellas), i cui talenti coincidono inestricabilmente con i vizi. Il personaggio otterrà uno straordinario successo (Toro, Re), sposerà una bionda che gli causerà problemi (Casino) e poi commetterà ineluttabili passi falsi che lo porteranno a fare i conti con la legge (Taxi, Toro, Goodfellas), ma a non imparare nessuna lezione: Taxi, Toro, Re, Goodfellas, Aviator, non c’è un solo film di Scorsese in cui l’eroe si riscatti nel finale. Al limite può chinare il capo e accettare le manette o un programma di protezione, con tanta nostalgia per i tempi in cui se la spassava, fuck, quelli erano i giorni. Insomma se volete una morale, se volete un riscatto esistenziale, un fervorino finale su quanto è alienante e disumana la finanza, o la mafia, o la droga – state chiedendo al cineasta sbagliato. C’è chi può uscire da una dipendenza quando vuole: c’è chi resta cocainomane anche dopo dieci anni che si è disintossicato. Non è dipendenza psicologica: è la candida ammissione che quella roba era incredibile, meglio degli spinaci di Braccio di Ferro, la cosa migliore che ti è capitata, anche se poi hai scelto di sopravvivere. Ma da qualche parte nascosta sai di averne ancora, per quei momenti in cui tutto il resto rischia di crollarti addosso. Magari ci sei seduto sopra in questo momento.

 

Alla fine Scorsese è i Rolling Stones: cosa ti aspettavi? Cosa credevi? Può fare cose uniche, persino miracolose alla sua età: un paio di scene sono esilaranti, poetiche, struggenti (l’arresto durante le riprese dello spot; il breve sguardo del federale in metropolitana). Ma a volte vuole solo stare alzato con gli amici, bere sniffare, dire parolacce, suonare il rock’n’roll. È fatto così, e non ti deve mica piacere per forza. 

 

(Comunque Portofino-Ginevra via terra si fa in cinque ore con il traffico, cioè: che modo stupido di affondare un impero. Fuck).

 

The Wolf of Wall Street è al Cityplex Cine4 di Alba (17:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 16:30, 18:00, 21:30, 22:00); all’Impero di Bra (16:30, 20:30); al Cinecittà di Savigliano (17:00, 21:15); dura due ore e mezzo.

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L’impero del Kitsch

Ormai col digitale si può fare veramente di tutto, la scena in cui lui suona il piano è incredibile (hanno usato la sua testa e la mano di un vero pianista).

Dietro i candelabri (Behind the Candelabra), Steven Soderbergh, 2013.

 

In un universo parallelo, il giovane Silvio Berlusconi un giorno si è imbarcato per una crociata più lunga delle altre e non è tornato a casa. Costretto a sostituire il fido Confalonieri al piano, si è arrabattato trasformando ogni concertino in uno spettacolo, ogni difetto di esecuzione in una gag; perfezionando nel frattempo anche l’arte di stordire gli ascoltatori di barzellette e chiacchiere tra un numero e l’altro. Una volta sbarcato negli USA, lo aspettava altra gavetta nel circuito dei saloon e dei bordelli: poi gli è capitato di fare un po’ di storia della televisione (è pur sempre Silvio Berlusconi), e alla fine si è fermato a Vegas: il primo grande artista a far sgorgare dollari dal deserto. L’oasi delle slot divenne la capitale del suo impero del kitsch: casalinghe di cinquanta Stati venivano a toccargli il parrucchino, e a constatare che a differenza di tutti gli ex divi della tv in bianco e nero, lui non invecchiava: aveva soltanto messo fuori i colori, e che colori. In un universo non troppo parallelo, Silvio Berlusconi ha un segreto che non è esattamente quello di Dorian Gray: si tiene giovane macinando carne giovane, attirando timidi ragazzini con regali e promesse di gloria, suggendo loro la linfa vitale, per risputarli poi sul marciapiede, involucri vuoti ma segnati per sempre nell’animo e nella plastica del viso. Nel nostro universo invece Silvio Berlusconi ha fatto l’imprenditore e noi ci siamo persi un artista, un entertainer, un personaggio favoloso. Consoliamoci con Liberace. 

 

Si danno appena due bacetti. Matt Damon bravissimo, come sempre.

Perdonate il curziomaltesismo – e dire che quella lunga epoca in cui ogni film era uno spunto per parlare di B. sembrava esaurita: ma poi a due settimane dalla decadenza arriva anche in Italia il Liberace di Soderbergh, e di fronte all’incredibile consistenza bavosa del personaggio impersonato da Michael Douglas, qualsiasi sforzo di tenere lontano il pensiero di Berlusconi e delle sue ragazze di Casoria o Casablanca risulta vano. Forse proprio perché Soderbergh sembra voler rifuggere qualsiasi spunto politico per limitarsi a ritrarre un narcisista all’ultimo stadio, anche se filtrato dal punto di vista di una delle sue vittime (un tizio non proprio affidabile: ultimamente per esempio forse è in galera).

 

Forse Liberace, l’inventore del camp, meritava un racconto più lungo e disteso: la storia del concertista classico che per ingrossare il suo pubblico pagante comincia a inserire in repertorio canzonacce da music hall, passando nel giro di pochi anni da Liszt al boogie-woogie, conteneva spunti più interessanti della sua tarda vita sentimentale e delle sue chirurgie plastiche. Avremmo così scoperto che il Kitsch abbracciato dal pianista nasce dalle esigenze pratiche dell’entertainer: Liberace non vuol essere un punto scuro in giacca scura che suona un pianoforte scuro in fondo a un palco immenso. Vestiti, anelli, barzellette: tutto ciò che funziona per attirare l’attenzione del pubblico è una cosa buona, e con le cose buone non si esagera mai abbastanza (“too much of a good thing is wonderful”). Nello spazio di vent’anni, Liberace passa dal tuxedo scuro allo strascico di ermellino. Sempre più grosso, sempre più vistoso, il pianista è anche sempre più vuoto: la musica è diventata un accessorio per far prendere fiato al pubblico tra una gag e l’altra. Alla vacuità del personaggio poi corrisponde una vita sentimentale melodrammatica che lui volle tenere nascosta fino alla fine. Il film decide invece di scoperchiarla, illuminando solo una piccola porzione di quello che è stato Liberace: ma il cinema è fatto così, bisogna semplificare, e lui lo sapeva bene.

 

Il vero Liberace, una sera che vestiva casual.

Il grande schermo è sempre stato il suo cruccio: non importa quanto fosse già ricco e famoso, il suo sogno era diventare una stella del cinema, e non ci riuscì. Gli andò meglio in tv – memorabile la sua comparsata nel telefilm di Batman – ma il mezzo gli stava stretto. A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, la maledizione continua: Soderbergh ha girato per anni gli studios cercando di piazzare il soggetto. Persino la disponibilità di Michael Douglas e Matt Damon non è riuscita a vincere la diffidenza per un film in cui i due avrebbero fatto un po’ di sesso assieme. Alla fine anche stavolta la tv ha vinto: il film è stato prodotto dal canale HBO, quello che produce le serie serie. In Italia è uscito nelle sale, tanto vale approfittarne. (Update: a Cuneo e provincia l’hanno già tolto. Però c’è ancora all’UCI Moncalieri, alle 14:35! Secondo me inizia un po’ più tardi).

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Ritratto del genio da stronzo

Jobs (Joshua Michael Stern, 2013)

Cosa ha permesso a Steve Jobs di diventare Steve Jobs? Un viaggio in India con l’amico fuoricorso? Qualche acido di troppo con la fidanzata fricchettona? Il trauma dell’adozione? Il garage di mamma e papà? E se fosse stata la stronzaggine?

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Non c’è. Nel film ti mostrano soltanto la scheda madre. Uffa.

Ogni tanto, durante il film, sentirete qualche ex amico di Steve dire una di quelle classiche frasi del tipo “È cambiato, una volta non era così”. Può anche darsi. Ma a questo punto c’è qualcosa che non va nella sceneggiatura, perché quello che effettivamente vedono gli spettatori è uno stronzo integrale dalla sua prima apparizione. Tanto che viene da rispondere ai personaggi: Ehi, ti sbagli, è sempre stato così, si vede che è nato stronzo, che cosa ci vuoi far. Chissà poi perché tanta insistenza su un tratto del carattere. È davvero così fondamentale sapere che ha fottuto Wozniak sin dall’inizio? Che imponeva ai dipendenti la puzza dei suoi piedi, li licenziava per capriccio, che si sfogava urlando a squarciagola in automobile, che abbandonava fidanzate incinte, e poco altro? Ok, non dico che tutto questo non possa servirci a conoscerlo meglio, ma di solito, quando muore un personaggio importante, tendiamo a farne ritratti virati in rosa. Nel caso di Steve Jobs sembra che stia succedendo il contrario, il che potrebbe stupire chi ricorda l’incredibile cordoglio telematico che esplose due anni fa anche in Italia.

 

Già la biografia di Isaacson, uscita in tutta fretta pochi giorni dopo, mostrava di non volerci risparmiare i dettagli più sgradevoli della sua personalità. Anche il rassomigliante Ashton Kutcher non si preoccupa minimamente di rendere il suo Jobs più simpatetico di quanto non fosse l’originale: è un manager tarantolato che non riesce a tenere le gambe ferme sotto il tavolo del Consiglio di Amministrazione, terrorizza i dipendenti, taglia teste senza scrupoli – e nel mentre ogni tanto si fa venire qualche buona idea, il Mac, l’Ipad – dettagli, sembra che quello che interessi davvero lo sceneggiatore siano le lotte per la carica di Amministratore Delegato. E dire che la prima parte del film era stata promettente: Jobs avrebbe potuto essere un meraviglioso film per nerd, un viaggio nell’età dei pionieri, quando programmare un videogioco significava anche fissare i circuiti con un saldatore. Secondo me ci sarebbe mercato per un film così.

 

Lisa, lenta e costosa (l’omonima, indesiderata figlia di Steve non ha la forza di alzarsi dal divano prima di mezzogiorno).

Voglio dire, stiamo tutti davanti a un aggeggio digitale per quattro o cinque ore al giorno – chi non avrebbe voglia di dare un’occhiata alla prima schermata del primo computer, montato in un garage? Siete sicuri che non troveremmo avvincente la storia della nascita dell’interfaccia grafica, che il film liquida nei pochi secondi in cui Jobs scopre che Bill Gates gli ha fregato l’idea e gli fa una rodomontata per telefono? (Tanto più che il film omette la risposta sorniona di Bill: non ho copiato te, c’era questo ricco vicino di casa che si chiama Xerox, sono entrato a rubargli il televisore e ho scoperto che ci avevi pensato già tu). E tutti quegli oggetti che la polvere rende belli, che so, i floppy (i veri floppy, quelli che a sventolarli facevano: flop). E a proposito di flop, tutti i prodotti bellissimi sulla carta che flopparono miseramente: Lisa, il primo Mac che scaldava come un tostapane…La poesia delle vecchie schermate in bianco e nero. Uno dei momenti più divertenti è quando il giovane Steve, alla ricerca di investitori, cerca di spiegare quello che stanno facendo in quel garage: è una tastiera che si collega al televisore e… puoi farci di tutto. Ecco, Jobs avrebbe potuto essere il film che ci mostrava il primo home computer, il primo Sistema Operativo, il primo mouse che trascina i file nel primo Cestino, e così via. Il caratteraccio di Jobs avrebbe potuto rivelarsi la spia della sua insofferenza nei confronti delle scomodità e inestetismi del quotidiano, la molla che lo spinge a inventare un mondo migliore: un Jobs stanco di digitare righe di comando inventa (o copia) il drag-and-drop, un Jobs che non sopporta più di non poter scaricare la posta al gabinetto inventa l’iPhone. Tutto questo sarebbe stato spettacolare e anche abbastanza divertente, credo.

 

Anche questo se lo sono comprato in pochi.

E invece nel secondo tempo il film si disinteressa dei computer e comincia a concentrarsi su quel che sta sotto, scrivanie e poltrone. Diventa un film di gente che sgomita per occupare scrivanie e poltrone. Jobs continua a dominare la scena, urlando e strepitando, licenziando e facendosi licenziare. Poi si prende una vacanza (in realtà in quel periodo fonda NeXT, un’esperienza fallimentare ma cruciale per gli sviluppi successivi) finché chi lo aveva cacciato dai piani alti di Apple non striscia a implorare il suo ritorno. Forse la chiave del film è tutta lì. Questo non è un film per nerd. Un giorno forse qualcuno farà un bel film di Jobs per nerd (Aaron Sorkin sta lavorando a un progetto, speriamo bene), ma questo non lo è. Questo è un film per manager. Ciò spiegherebbe anche la necessità di enfatizzare la stronzaggine del personaggio. Sono i manager che amano specchiarsi nel miliardario partito dal garage: e nulla li esalta come il suo secondo avvento all’Apple. La storia del manager tradito e cacciato con infamia dalla propria azienda, la quale in sua assenza va in malora, finché un bel giorno Egli non viene supplicato di salvarla, trionfando sui suoi vecchi detrattori con prodotti coraggiosi e innovativi che la porteranno al top: una storia così per i manager di tutto il mondo dev’essere irresistibile, l’equivalente di Cenerentola per le terzogenite. Ecco, Joshua Michael Stern voleva raccontare questa storia, non quella dell’inventore di incredibili aggeggi, che purtroppo restano sullo sfondo. Ed ecco quindi un Kutcher più manager che inventore: non tocca un solo circuito stampato, in compenso mangia la faccia a qualsiasi membro del suo team che non la pensi come lui. I manager di tutto il mondo, quando vanno al cinema, vogliono vedere un manager più bello di loro che licenzia furiosamente tutti gli stronzi che gli capitano a tiro, uno che abbia il coraggio di tagliare le teste che loro non riescono a tagliare. Jobs è il loro film. L’altra sua utilità consiste nel dimostrare definitivamente la Prima Legge del Biopic: la qualità della storia è inversamente proporzionale alla somiglianza dei personaggi. Purtroppo i personaggi di Jobs sono davvero molto somiglianti. Jobs è ancora al Multisala Impero di Bra alle 22:15; se siete manager in carriera magari vi divertite parecchio. Sennò, bah.

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I love shopping da Paris Hilton, tipo

Il Bling Ring (quello finto).

The Bling Ring (Sofia Coppola, 2013)

 

Cioè mamma, dai, non stressare.

 

Me l’ha prestato un amico il vestito. Mi vuole fare tipo un book, o un servizio fotografico, o boh, dai insomma, mi vuole fare delle foto e mi ha detto che mi sta bene e di prenderlo pure e cioè, è perfetto, no? Cioè è assolutamente mio, adesso. Non ti preoccupare. E fatti un account su facebook invece di venire sempre sul mio con la scusa di sapere cosa combina tipo papà. E di spiarmi. Non l’ho rubato il vestito. Assolutamente.

 

Ma facciamo anche l’ipotesi che io questo vestito l’abbia preso da un posto, tipo, assolutamente pieno di vestiti che non si mette mai nessuno – e che questo posto, tipo, sia una proprietà, cioè, privata, però spalancata, capisci? antifurto disinserito, chiave sotto lo zerbino – mamma, ma che cazzo vuoi da me, si può sapere? Sono tua figlia, tipo. Cioè, lo sono assolutamente. 

 

Il Bling Ring (quello vero, da un’angolazione che non li valorizza).

Cioè, credi davvero che non li abbia visti su youtube i video di quando sei andata con la tua amica Kirsten nella villa di quel re a Versailles e vi siete provati, tipo, tutti i vestiti e avete mangiato assolutamente tutti i pasticcini? e allora che cazzo vuoi da me, sei la cleptofreak in capo mamma. Cioè prova a dirmi che qua dentro è tipo tutta roba tua, tutta tua… Cioè non hai mai rubato niente a una festa?

 

Neanche quel leone d’oro sul camino?

 

Guarda mamma che lo sanno tipo tutti che fu un blitz tuo e di quel tuo ex, Quentin, chissà cosa aveva da farsi tipo perdonare. E questo invece cos’è. Un Oscar, alla migliore Sceneggiatura, cioè, mamma, dai, a chi la vuoi raccontare? Che poi, cioè, il punto è proprio quello. Tu le storie non le sai raccontare, assolutamente, tu sei fatta come noi. Sei una di quelle che al cinema dopo due ore di film non sanno dirti cos’è successo, chi amava chi, chi ha ucciso chi. In compenso ti ricordi benissimo tutti i colori delle scarpe e le fantasie dei vestiti, mamma, sei fatta così. Siamo fatti così. Forse è genetica, forse è cultura. Tipo che siamo troppo attente ai dettagli per interessarci dell’insieme. O forse ci nascondiamo nei dettagli perché non siamo mai riusciti a capire l’insieme. Comunque è così e vaffanculo, ok? Sei superficiale, non è una scelta artistica, sei proprio fatta così. La tua idea di profondità è riprendere i personaggi da lontano. La tua idea di introspezione è inquadrarne i brufoli da una webcam. Però ci piaci così, mamma, non prendertela. Sei sempre così triste.

 

C’è sempre tanto silenzio nei tuoi film, ci hai fatto caso? Sotto a tutte le playlist che ascoltano i personaggi, c’è sempre questo rumore di fondo che cambia nota da una sequenza all’altra – il rumore di milioni di ventilatori, tipo, di milioni di motori fermi a milioni di semafori, i rumori di Tokyo filtrati dai condotti di areazione fino a diventare una sola nota di rumore bianco, come in quei dischi scemi di shoegaze che per fortuna non ci infliggi più. Il rumore della gente che all’improvviso comincia a fermarsi davanti ai cancelli di Versailles. Il rumore che ci fa paura; e allora ci chiudiamo in macchina e ascoltiamo a massimo volume la musica più forte che c’è. Il rumore del silenzio che ti picchia tra le tempie al ritorno da una festa. Il rumore, tipo, della fine. Un giorno qualcuno verrà a prenderci, i sanculotti o il Los Angeles Police Department. Ci accuseranno di aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità e cazzo, mamma, avranno assolutamente ragione. Poi ci porteranno via, tipo, in un posto dove forse il rumore ci lascerà in pace.

 

Ma potrebbero essere anche Jimmy Choo, tipo.

Ma nel frattempo mamma, come fai a farci la morale. Siamo quattro ladruncoli maniaci di gossip che si sono trovati con molto tempo libero nel brevissimo periodo storico in cui i vip di Beverly Hills avevano le ville su google streets, l’agenda degli impegni su tmz, e ancora non avevano collegato le cose e inserito l’antifurto. Cioè, abbiamo rubato oggetti per milioni di dollari senza rendercene assolutamente conto, e adesso siamo, tipo, in galera. E tu ora vai in giro a dire che sei preoccupata per la nostra generazione traviata dalla cultura pop e altre cazzate, mamma, la semplice verità è che stai facendo soldi su di noi. Hai scritto un film su di noi. Cioè, “scritto”. Hai comprato i diritti di un reportage di Vanity Fair, non hai cambiato una virgola. Non hai neanche fatto caso alle cose non dette, alla gelosia delle ragazze per Nick, non hai voluto approfondire – ma non è che non hai voluto – è proprio che non sai come si fa. Tutto quello che potevi fare era inquadrarci da vicino o da lontano. Un altro (o un’altra) al tuo posto non avrebbe fatto così. Si sarebbe inventato una storia, avrebbe scavato nello spazio vuoto tra le dichiarazioni dei personaggi e degli avvocati. Ci avrebbe raccontato di Nick che finalmente trova un’amica ed è disposto a qualsiasi cosa per lei, Nick che la porta nel Nevada guidando un’auto piena di refurtiva – cioè, ti immagini cosa avrebbe potuto fare un altro regista con materiale del genere? Innamorarsi di una cleptomane, seguirla nella sua follia, diventare il suo manichino, imparare a memoria tutte quelle cazzo di nomi di cui fino a quel momento non ti era mai fregato niente, Marc Jacobs, Gucci, YSL – passare in due settimane dalla flanella grunge a impartire lezioni di stile tipo “non puoi mettere zebra e leopardato assieme, devi scegliere”. Che ne avrebbe fatto di tutto questo non dico uno Scorsese, ma un Ron Howard. Ma sei passata tu. E tu la distanza tra i personaggi non ce la puoi mettere. Tu sei sempre in primo piano con loro. È impossibile non immaginarti nella tua cameretta con quelle manolo indosso. E vuoi farci la morale, cioè, insomma, tipo, dai.

 

Cioè, assolutamente.

Però il film si guarda lo stesso, perché c’è la mia amica Emma Watson che è tipo assolutamente fantastica, cioè, guardala. Si è mangiata il tuo film. Lo ha capito sin dall’inizio, come solo i grandi attori: si è resa conto prima di te che sarebbe stato tipo come una puntata lunghissima di The Hills, e ha fatto l’unica cosa sensata che poteva fare un vero professionista: si è studiata The Hills. Lei lo ha capito, non si trattava semplicemente di entrare in casa di Audrina e rubare qualche altro oggettino: stavolta bisognava rubarle l’anima, questo fanno gli attori seri e lei è serissima assolutamente. La sua Rachel è un capolavoro iperrealista, più vera del vero, assomiglia tipo a un sacco di quindicenni che conosciamo. Lei un Oscar non lo ruberebbe, assolutamente. Mangia in testa a tutte le starlette ex Disney di Spring Break, e a quel guitto compiaciuto di James Franco. Che poi c’è da dire che in generale tu sei molto meno autoindulgente di Korine, anche se la categoria è la stessa: usare la superficialità dei giovani d’oggi per valorizzare tipo la propria. 

 

A proposito, Sofia, io non sono tua figlia. Ho più o meno la tua stessa età, e nessun titolo per giudicare, né te, né i tuoi personaggi. Per esempio, senti questa: il tuo film forse l’ho rubato. Cioè, non proprio, ma ammettiamo l’ipotesi che ne abbia tipo scaricato una versione – è stato più forte di me, era peggio di una villa col cancello spalancato: mi è arrivato in casa coi sottotitoli e tutto, dovevo solo premere un tasto. Ma non avrei voluto, è stata la distribuzione italiana che ha deciso di programmare dopo Venezia un film uscito a Cannes, ti immagini? I femminili ne parlavano già in marzo, se uno aveva un po’ di curiosità come faceva a tenersela? Il film però esce oggi, e ci dev’essere senz’altro una strategia commerciale dietro, ma io mi domando sinceramente quale sia: non l’ho capita. Forse è un esperimento sociologico, forse facciamo tutti parte di un’opera d’arte, tipo una gigantesca installazione di ladri di film che guardano e giudicano un film di ladri. Tipo. Cioè. Assolutamente.

 

The Bling Ring, se siete onesti, è al Cinecittà di Savigliano alle 22.30; nei festivi alle 20:20 e alle 22:30. 

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Lauda/Fonzie, un film di Ron Howard

Questo non era un film. Sono serio. Non lo era.

Rush – (Ron Howard, 2013)

 

Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l’effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva… “Lascia perdere”, rispose la Sregolatezza, “quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia”. Sai che perdita, replicò l’amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.

 

Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po’ ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C’è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c’è. La Lotus nera col bordino dorato c’è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell’aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale (“Fisichella”, “Schumacher”) smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.

 

Olivia Wilde, io da te accetterei anche una gastroscopia, ma non fare più ruoli da antipatica. È l’unica cosa che non ti riesce.

Un latinismo assurdo e necessario, un’invocazione, un ringraziamento. Nicky Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un’ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri.  Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota.

 

Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili. 

“Quindi ricapitolando devo fare il…” “Il pivello precisino figlio di mamma e papà”. “Ok”.

 

Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.

 

È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Nicky Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Nicky Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.

 

Otto euro.

 

E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.

 

Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.

 

Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.

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Un Lincoln quasi Obama

Lincoln (Spielberg, 2012)

 

“La bussola ti indica il nord, ma non ti mostra dove sono le paludi”, dice più o meno Abraham Lincoln al leader radicale Thaddeus Stevens durante uno dei dialoghi che scandiscono il film. La frase sembra fatta apposta per essere citata, linkata, twittata all’infinito da un certo pubblico che temo sia quello che soprattutto Spielberg aveva in mente (dico “temo” perché ahimè, ne faccio parte): i progressisti moderati, liberal ma non troppo. Quelli che si incazzano con gli amici che votano Ingroia anche se su tanti argomenti starebbero molto più a sinistra di quanto starà mai qualsiasi Ingroia: la nostra bussola indica quel Nord, ma noi abbiamo anche una carta del territorio e sappiamo che in mezzo c’è un’enorme palude e che forse toccherà passare da Sud, attraversando Monti, forse addirittura Casini. Sono cose che succedono e ci fanno vergognare, ma di cosa, poi? Di avere cartine aggiornate?

 

Spielberg, come il migliore cinema americano, ha la bussola e ha la cartina: non dimentica il nobile ideale a cui tendere (l’abolizione della schiavitù) ma non si sottrae alla complessità del reale (bisogna comprar voti al Congresso uno scilipoti alla volta), anzi ci si tuffa con passione, restituendo agli spettatori una sintesi affascinante anche se, nel caso di Lincoln, più utile a discutere il presente che il passato a cui fa riferimento. Questo è un altro tratto tipico di Spielberg: se la Guerra dei Mondi parlava dell’11 settembre, Minority Report del Patriot Act, Lincoln potrebbe essere definito il primo biopic su Barack Obama. Tony Kushner, lo sceneggiatore di Angels in America e Munich, ha lavorato per più di tre anni, leggendosi scaffali di libri sul personaggio, per poi uscirsene con uno script in cui la first lady e la sua sarta nera (personaggio storico) assistono alle sedute del Congresso, una circostanza veramente poco probabile a metà Ottocento. Di fronte a invenzioni come queste, tanto più sleali quanto più il film sembra garantire la solita precisione filologica spielberghiana di Schindler’s o del Soldato Ryan, il regista non ha trovato di meglio che affermare che una ricostruzione come Lincoln è da considerarsi “un sogno”. La Storia americana ci mette gli arredi e i costumi, ma sotto barbette e giacche blu i protagonisti siamo sempre noi, sognanti noi stessi. All’inizio del film un pugno di soldati yankee bianchi e neri imbarazza Lincoln recitando un suo celebre discorso a memoria. Gli storici storcono il naso, i soldati della Guerra di Secessione erano perlopiù analfabeti ed è improbabile che cercassero sui giornali testi di discorsi scritti in piccolo per impararli nelle trincee, come i fans di Obama che li trovano su youtube. Ma nel sogno accadono queste cose: che i discorsi schiudano le porte e spezzino le catene, e che i cittadini le imparino a memoria per motivarsi mentre scannano i ribelli. Più tardi il film darà l’impressione di credere che un buon discorso a quattr’occhi di Abe “l’onesto” Lincoln a un deputato avversario possa riuscire dove non riesce l’offerta di incarichi e prebende. La parola è più forte della corruzione. Ci crediamo?

 

 

Gli americani ci credono, tanto che spesso si fanno governare dagli avvocati: dateci un podio, fateci leggere un’arringa, dicono gli avvocati Abe e Barack, e vi solleveremo il mondo (il fatto che sia Abe che Barack siano stati anche comandanti in capo, e il mondo lo abbiano cambiato più coi cannoni e i droni che con le chiacchiere, scivola in secondo piano). È una cosa di cui ci accorgiamo ogni volta che Obama fa un discorso ufficiale – qualche giorno fa per esempio ha giurato su un paio di bibbie per il re-insediamento, una formalità. Negli USA è anche uno spettacolo, Beyoncé ha cantato l’inno e tutti si sono arrabbiati perché era in playback, ma non è questo il punto. Il punto è che milioni di persone negli USA, nel mondo, persino in Italia, sono pronti a dare a un discorso formale un senso politico: c’è una diffusa convinzione che Obama cambi il mondo con le parole che dice, più con i droni che comanda. Alcuni si lamentano che in Italia non funzioni così: perché i nostri politici non fanno discorsi altrettanto belli e importanti? Tanto vale chiedersi perché non friggiamo il bacon e il baseball ci annoia, comunque dipende da fattori storici: la centralità del sermone nella cultura protestante, la diffidenza italiana per la retorica da cui il fascismo dovrebbe averci vaccinato, ma anche la difficoltà dell’italiano medio a mantenere l’attenzione per più di tre minuti, per cui delle infinite dirette di Santoro o Floris nelle conversazioni del giorno dopo resistono solo due o tre scambi di battute estemporanee. 

 

Temo che uno spettatore italiano possa avere qualche difficoltà a capire cosa succede in Lincoln, un film dove Spielberg dà per scontate veramente troppe cose sul personaggio, il che non è da lui. A scuola non lo studiamo molto, gli anni intorno al 1860 sono già fin troppo ricchi di date e battaglie e trattati da memorizzare; già ci rammentiamo a malapena che i grigi sono gli schiavisti e i blu sono i buoni; ma il fatto per esempio che i Repubblicani siano per l’abolizione della schiavitù e i Democratici contrari ci fa girare la testa, sembra un mondo alla rovescia. Secondo una tendenza dei biopic moderni, il film preferisce concentrarsi su un periodo molto ristretto della vita del protagonista. Il risultato lo fa assomigliare, più che a un bell’affresco spielberghiano, al pilota di una miniserie televisiva di lusso, o se preferite a una season finale di West Wing in costume. L’episodio descritto risulta probabilmente sopravvalutato rispetto al contesto: si tratta della battaglia congressuale per far passare il Tredicesimo Emendamento, che abolisce formalmente la schiavitù su tutto il territorio dell’Unione. Se non fosse passato, gli Stati del Sud riammessi dopo la sconfitta avrebbero potuto reclamare gli schiavi che si erano emancipati durante la guerra, compresi quelli che avevano combattuto per anni con la giacca blu. Così almeno la pensa Lincoln, che come ogni politico è molto bravo a convincerci che la prossima battaglia è quella definitiva, quella più importante, quella da cui dipende il destino delle future generazioni. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Ma questo comunque è il Nord che la bussola addita a Lincoln per tutto il film, mentre si destreggia nelle paludi del Campidoglio proprio come fa Obama quando scende a compromessi col demonio per far passare la riforma sanitaria o superare il Fiscal Cliff. Barack può stare sereno, Abe fece di peggio: mentre un suo pool di maneggioni corteggiava i senatori democratici a scadenza di mandato, lui si permise di allungare di qualche mese la guerra con un Sud in ginocchio per evitare che la pace cambiasse gli equilibri del Congresso, gravandosi la nobile coscienza di qualche migliaio di ragazzini morti in più. Ma se la tua bussola ti mostra il Nord giusto, non c’è palude che ti possa insozzare. In Italia diciamo semplicemente “il fine giustifica i mezzi”, e non ci facciamo un film sopra: un po’ perché non siamo capaci di scrivere un procedurale, un po’ perché da noi i guerriglieri parlamentari sono visti con diffidenza, sia quando acquistano scilipoti un tanto al chilo sia quando si riducono a precettare senatori a vita in fin di vita. Un’altra cosa di cui diffidiamo sono i politici che si affidano troppo spesso alle battute, anche se quelle di Berlusconi non si possono neanche lontanamente paragonare alle storielle da avvocato messe in bocca allo straordinario Daniel Day-Lewis. 

 

Ma insomma il film vuole farci pensare – il film ha un disperato bisogno di farci pensare – che un presidente che sappia quel che è giusto non deve risparmiarsi a ottenerlo da riottosi organismi democratici, anche con metodi ai limiti della decenza e della legalità (solo “ai limiti”: Lincoln tecnicamente non corrompe, offre solo incarichi federali; non mente al Congresso, racconta solo verità parziali). Siccome il film non parla d’altro (dieci secondi di battaglia, qualche grana famigliare tutto sommato dimenticabile), siamo autorizzati a pensare che la grandezza di Lincoln consista in questo suo machiavellismo etico. Non è vero: Lincoln è stato molto altro che il film ha deciso di non mostrarci. Un presidente di guerra, da principio recalcitrante, e poi determinato a intestarsi uno dei più sanguinosi massacri della storia dell’umanità, il primo conflitto industriale con le trincee, la dinamite e le armi a ripetizione. Ma Spielberg preferisce mostrarcelo sbigottito davanti alle fosse comuni, indeciso se graziare un disertore. Thaddeus Stevens, il memorabile personaggio interpretato da Tommy Lee Jones, può essere scambiato dallo spettatore inesperto per un radicale di ultraminoranza: viceversa, da esponente di spicco della corrente maggioritaria tra i Repubblicani, si stava avviando a diventare il “dittatore” del Congresso nei primi anni della ricostruzione post-bellica. Ricostruzione che fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori, forse anche a causa del radicalismo con cui Stevens e i suoi colleghi la portarono avanti. Il tentativo di imporre l’uguaglianza con le baionette federali portò alla nascita del Ku Klux Klan e alle leggi segregazioniste che per un altro secolo fecero degli afroamericani dei cittadini di serie B. Una palude che né Stevens né Lincoln avevano previsto. I due personaggi, pur simpatici e interpretati al meglio, non hanno la profondità di un autentico machiavelli come Oskar Schindler, ed è un peccato, soprattutto per l’impegno che ci ha messo anche stavolta Daniel Day-Lewis. Il suo Lincoln rimane un bravo avvocato e un simpatico conferenziere, con una vita privata non semplice e una vita pubblica sfibrante: un uomo leale, astuto, amabile eccetera eccetera, il presidente che molti americani vorrebbero, e infatti ce l’hanno. 

Lincoln stasera è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (21:10), al Multisala Vittoria di Bra (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura due ore e mezza.

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Non avrai altro Master

The Master (Paul Thomas Anderson, 2012)

 

Freddy è un reduce che porta a spasso per gli Stati Uniti del dopoguerra i suoi traumi e la sua passione per i distillati non convenzionali (manda giù il solvente come fosse acqua). L’incontro con Lancaster Dodd, uno scrittore che sta fondando una religione, gli offre una possibilità di riscatto – a meno che il Master non lo stia semplicemente usando come cavia per i suoi esperimenti sul controllo delle menti più impressionabili. Gennaio, diciamocelo subito, sta diventando un mese impossibile per chi si ostina a mettere da parte quei sette, quattordici, ventotto euro da investire in biglietti al cinema. Forse è colpa dei cinepanettoni (è sempre colpa dei cinepanettoni) e della loro logica di occupazione massiccia delle sale durante le feste; l’impressione è che i gestori e i distributori italiani abbiano deciso di organizzare una specie di festival su scala nazionale. C’è una mezza dozzina di titoli imperdibili e altri tre o quattro che promettono bene (e quando mantengono sono sempre le sorprese migliori). Qualcuno per forza ce lo perderemo; ci consoleremo pensando che prima o poi lo recupereremo al videonoleggio – cosa che in molti casi ci dimenticheremo di fare perché siamo già indietro con questa o quella serie imperdibile e poi in realtà la sera siamo distrutti e tutto quello che desideriamo è sonnecchiare davanti a qualcuno che litiga da Floris o Santoro. Quindi passiamo senza indugio alla domanda cruciale: vale la pena di investire parte del proprio budget cinematografico nell’ultimo pluripremiato film di Paul Thomas Anderson, che come praticamente tutti i film di P.T. Anderson da Magnolia in poi (passando per il Petroliere) è già considerato un capolavoro? Dunque. Dipende.

 

Io, per esempio, ci andrei senz’altro, ma non so se faccio testo, ho una fissa per le religioni e una devozione per Philip Seymour Hoffman – per inciso posso capire i suoi devoti nel film, chi non aderirebbe a una religione fondata da Philip S. Hoffman nella sua versione gioviale e buffoncella? I cinefili non possono senz’altro perdersi il primo film girato in 65 millimetri in quasi vent’anni – sempre ammesso che trovino una sala che lo proietta in quel formato – però un cinefilo mica sta ad aspettare che gliene parli io, di The Master, un film che non ha preso il Leone d’Oro soltanto perché non si può dare allo stesso film a cui si dà la Coppa Volpi per il migliore protagonista, e non si poteva non dare la Volpi ex-aequo a Hoffman e Joaquin Phoenix. Per i profani The Master è semplicemente un film dalla fotografia stupenda, con due attori al massimo della forma. Entrambi avevano già avuto una possibilità di vincere un Oscar interpretando un biopic; peccato che sia successo nello stesso anno 2005, quando il Capote di Hofmann soffiò la statuetta al Johnny Cash di Walk the Line. Per cui se vi piace vedere attori in gara, è senz’altro il vostro film; c’è quasi da vergognarsi pensando a quanto ci stanno dando dentro per gente che se ne sta a guardarli sgranocchiando popcorn. Joaquin Phoenix sembra che sia andato in guerra davvero, ha la schiena deformata da una scoliosi e parla muovendo un solo lato del volto, come Popeye. Sul serio, dopo averlo visto torni a casa e la prima cosa che fai è cercare notizie su internet perché hai paura che non stia bene.

 

In effetti negli ultimi anni ha fatto dei numeri interessanti Phoenix (ormai lo si può chiamare col cognome, non c’è più la necessità di rimarcare che non è il suo povero fratello). A un certo punto ha messo in giro la voce che si ritirava dal cinema per darsi al rap; si è fatto crescere la barba ed è andato da Letterman a fare scena muta masticando gomma, alla fine il conduttore lo ha salutato dicendo: “È un peccato che tu non abbia potuto essere con noi stasera”. In realtà Phoenix stava semplicemente promozionando il suo film in lavorazione, I’m still here, in cui impersona sé stesso molto spesso nudo mentre sniffa, ordina puttane al telefono, e a un certo punto qualcuno gli caga addosso mentre dorme (non l’ho visto). E poi per due anni non ha fatto più film, e ora arriva con questo, e che razza di film. Il suo Freddy fa paura, non lo vorresti mai sul tuo lato del marciapiede. Non c’è un solo fotogramma in cui appare in cui non hai paura che stia per fare qualcosa di orribile, ti riduci a sperare che si stia soltanto masturbando nei pantaloni. In realtà non sbrocca così spesso, ma che ansia che fa. Ed è il protagonista. Immedesimarsi in lui significa ammettere che non c’è una figura del test di Rorschach che non ti ricordi qualche organo genitale al lavoro; non è una cosa per cui tutti pagheremmo un biglietto, credo. Per dire, se siete al primo appuntamento magari provate Tornatore.

 

Ci fosse almeno qualche altro personaggio positivo, ma accidenti, non ce n’è. Intorno a Lancaster Dodd, lo scrittore pulp che sta fondando una setta, c’è il consueto codazzo di adoratori gregari e fulminati. La moglie (una stupenda Amy Adams in stato interessante) è la più antipatica di tutti. In effetti è forse il film più povero di personaggi positivi che io abbia visto, nel Petroliere c’era almeno un figlio che cercava di amare il patrigno, qui è tutto un concerto di fanatici maniaci e truffatori. Ti sorprendi ad aspettare che sullo schermo torni il Master perché lui, con tutte le sue teorie improvvisate alla bene e meglio, i suoi sermoni da predicatore da strapazzo… almeno è un tizio simpatico, a cui piace ridere e sperimentare cose nuove: bersi un distillato di trielina? Perché no, wow, è uno spasso, fammene ancora. E poi è Philip Seymour Hoffman, io lo seguirei dovunque; se venisse a dirmi dai rapiniamo la gioielleria dei nostri genitori, io con Philip ci andrei. Ma mettiamo che siate dei puristi, e che non andiate pazzi per i film doppiati: ecco, forse vale la pena di aspettare il dvd, ci sono almeno due scene fondamentali in cui Hoffman canta, e sono convinto che l’Hoffman originale non sia patetico come il doppiatore – ridicolo sì, patetico no, non so se mi sono spiegato. Per inciso, “trillion” in italiano significa “bilione”, non “trilione” come dicono i doppiatori. Vabbe’ che differenza farà direte voi? tre zeri di differenza, un trilione italiano è un milione di trillions inglesi. E la parola non è proprio lì per caso. 

 

C’è infatti la questione di scientology, che è uno dei motivi per cui the Master ha fatto tanto discutere (e quindi ha incassato molto bene, per un film d’autore). Per quanto regista e produzione abbiano ribadito che non è un film su Ron Hubbard, Anderson non ha veramente fatto molti tentativi per stornare i sospetti. Freddy conosce Lancaster su una nave, dove il Master riesce a concentrarsi sul suo lavoro evitando le polemiche (e le indagini federali). Hubbard rimase anni per mare, nominandosi commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Le tecniche di audit sviluppate da Lancaster sembrano molto simili a quelle di Dianetics o Scientology. La mitologia, le parole d’ordine… le anime che migrano di corpo in corpo per bilioni (non trilioni) di anni, sono concetti abbastanza familiari. E soprattutto, anche la più influente e carismatica delle mogli di Hubbard si chiamava Mary Sue. Manco il nome ha cambiato Anderson, allora dillo che cerchi rogna.

 

Non è chiaro se sia stata la questione Scientology a rendere difficile la produzione del film, con la Universal che a un certo punto si è tirata indietro.  Negli USA Scientology è ufficialmente considerata una religione, e va trattata con rispetto: se è meglio non fare film su Maometto, perché farli su Hubbard? Sappiamo che nel maggio dell’anno scorso Anderson ha voluto mostrare il film a Tom Cruise, che con lui vinse un Oscar per Magnolia. A Cruise il film non è piaciuto, soprattutto nel punto in cui il figlio primogenito liquida i discorsi del padre con una battuta: Non vedi che si sta inventando tutto? Anche il primogenito di Hubbard era scettico sulle teorie del padre. Giunse a cambiarsi il cognome, e si rifece vivo solo quando fu ora di reclamare un pezzo d’eredità. Insomma, è un film che parla veramente di Scientology. Ma se l’argomento vi incuriosisce, se vorreste capirne di più sulla storia di uno scrittore di fantascienza di serie B che fonda una religione (e una multinazionale del controllo pardon, autocontrollo delle menti), the Master rischia di deludervi: Scientology è solo un ingrediente, piccantissimo ma è solo uno di tanti. O forse il risultato finale, per quanto ottimo, risente delle difficoltà di percorso: Anderson ha rimesso le mani più volte nello script nel tentativo di ottenere qualcosa di finanziabile, e un po’ si sente. The Master è uno di quei film che ti fanno venire voglia di leggere il libro, perché sei sicuro che nel libro ci sia qualcosa di più esteso e profondo, magari qualche pensiero messo per iscritto che davanti allo schermo ti tocca immaginare di fronte a quei due faccioni magnetici ed esplosivi. Peccato che stavolta il libro non ci sia: the Master è una sceneggiatura originale (qui in una versione piuttosto diversa) in cui Anderson ha mescolato ingredienti originali e potenzialmente tossici: Dianetics, ma anche Steinbeck, e i ricordi di guerra di un grande caratterista, Jason Robards (l’anziano padre di Magnolia), una tensione forse edipica forse omoerotica forse tutte e due, e tante altre cose sullo sfondo difficili da distinguere. Il risultato sembra meno robusto del Petroliere, e forse non reggerebbe senza quei due giganti a tenere su tutto. Ma forse sono semplicemente deluso perché ho sviluppato una venerazione per Hoffman, e vorrei che qualcuno finalmente scrivesse un film maestoso tutto su di lui, un Quarto Potere per capirci. Secondo me se lo merita, e Ron Hubbard poteva essere il soggetto migliore, e Anderson l’autore giusto. Invece il regista aveva in mente un altro film – un film bellissimo. Ma se vi aspettavate anche voi l’epopea di un magnetico contafrottole interplanetario, rischiate di restare un po’ delusi.

 

The Master è al Cinema Monviso di Cuneo. Sbrigatevi, non si sa quanto lo terranno, e la prossima settimana ne escono tanti altri imperdibili. Buona visione (e buon Anno).