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Ballare al volante, ballare al cinema

Baby Driver (Edgar Wright, 2017).

C’è gente che balla là in strada. Lo fanno di nascosto, non li riconosci – se non dalle cuffiette, e da come tamburellano sul volante al semaforo. Non lo fanno per esprimersi o per esporsi o per piacere a sé stessi: lo fanno e basta, sono nati così, non smetteranno finché gli batte un cuore. Non sono più allegri di te, tutt’altro: c’è chi ha un fischio nella testa, o un dolore che non passa, o un grido che gli urla in testa, una canzone da dimenticare suonandoci sopra migliaia di altre canzoni. C’è gente che balla al volante, e non sono gli autisti peggiori.

Certi film partono talmente forte che è già tanto se non vanno a sbattere. Se dopo un po’ sbandano, se forano una gomma e arrivano ai titoli di coda un po’ ammaccati, è comunque un piazzamento. Baby Driver parte mollando il freno a mano e sgommando in quinta: infila una delle strade più trafficate di Hollywood (il canovaccio sull’autista delle rapine) ma trovandosi una corsia tutta personale (stavolta l’autista vive in simbiosi con le sue cuffiette, in un mondo tutto suo che va a tempo con la sua playlist). Almeno per mezz’ora gira tutto che è un piacere, con certe controsterzate che strappano l’applauso. Poi comincia a perdere colpi, ma appunto: era previsto. Al punto che viene quasi il dubbio che l’effetto sia voluto, o quanto meno calcolato: che da un certo momento in poi il film stia mettendo in scena proprio la difficoltà di mantenere le attese.

Già ai tempi di Hot Fuzz era abbastanza chiaro quanto Edgar Wright fosse affezionato a quei luoghi comuni del cinema d’azione che apparentemente stava parodiando. Come quello di Tarantino il suo è un cinema al cubo, che vive di riferimenti di riferimenti, e della gioia di saperli rimettere in scena. Baby Driver è una variazione d’autore su un tema rigoroso: man mano che la storia va avanti i margini d’azione si restringono, certi snodi della trama sono quasi tappe obbligate e Wright non fa nulla per occultarcele, anzi è come se le sottolineasse.

La svolta probabilmente è una strana scena in un parcheggio, dove un personaggio che non rivedremo più fa un lungo e discorso sulla carne di maiale, che non ha altro senso che farti pensare a certe vecchie messe in scena di Guy Ritchie – forse è una parodia, forse un omaggio (c’è differenza?) È il momento in cui Jamie Foxx, fino a quel momento quasi un cameo, prende in mano il film e apparentemente lo deraglia. Da lì in poi qualcosa si inceppa, ma non è forse quello che succede in tutti i film sulle rapine? C’è un piano perfetto e a un certo punto qualcosa che va storto. Anche Baby, che nella prima mezz’ora sembrava infallibile, di lì a poco non riuscirà più a far partire una macchina. Ci sarà ancora molta azione, e le canzoni continueranno a ritmarla, ma la freschezza iniziale è andata persa e non poteva che finire così. Baby Driver non è un film sulla perdita dell’innocenza – il personaggio di Ansel Elgort rimane immacolato anche quando si macchia di sangue – ma su un altro sintomo della crescita: la fine del senso di onnipotenza. Il musical si interrompe, le macchine non seguono più il groove, tutto crolla e chi ha deciso di seguirti, o in un momento di debolezza, di coprirti, forse ha commesso il suo più grande errore.

Baby Driver ha una trama molto semplice, portata avanti da personaggi la cui biografia si potrebbe scrivere su un tovagliolo. Questo lo aggiungo per chi nei giorni scorsi si è lamentato, per esempio, della scarsa profondità dei personaggi di Dunkirk – allora, forse è meglio rammentare che al cinema le storie durano in media due ore, nelle quali l’approfondimento dei personaggi non è sempre la priorità. Se davvero è quel che vi interessa, forse è meglio se restate a casa e vi leggete un libro – oppure vi sparate una stagione di una serie in venti puntate dove di sicuro ci sarà tanto spazio per approfondire i personaggi, sviscerarli, ribaltarli e ricomporli a piacere – viene il sospetto che trova il cinema superficiale, oggi, si stia aspettando qualcosa che al cinema più di tanto non si può trovare. E che da parte sua lo stesso cinema di intrattenimento stia prendendo un’altra direzione – che poi è una banale strategia di sopravvivenza: visto che non si può rivaleggiare con la serialità, si tende all’estremo opposto: alla rapidità, alla stilizzazione. Baby Driver Dunkirk sono due film diversissimi, ma accomunati dalla volontà esibita di essere oggetti cinematografici. In entrambi i casi la colonna sonora è fondamentale. Nel caso di Baby Driver, Wright mette a frutto la vecchia lezione di Tarantino: se c’è una cosa che piace agli spettatori in sala, è scoprire o riscoprire qualche vecchia canzone. Perché è vero che c’è gente che balla ai semafori: ma anche in sala, quando si spengono le luci. Baby Driver è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

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Max è sempre Max. Più matto che mai

MAD MAX 4: THE MEGAN GALE REDEMPTION.

Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)

 

Alcuni lo davano per morto, che era la conclusione più logica visto il mondo là fuori. Per quanto altro tempo avrebbe potuto vagare di oasi in oasi, scappando da questo e da quello, col suo magnetismo animale per i guai? Qualcuno prima o poi se lo sarebbe pur mangiato – non prima di averne spremuto il prezioso sangue – per spolparne le ossa e distillarne idrocarburi. Non è il destino di tutti, in fondo?

 

Altri non si rassegnavano, e col tempo ci avevano imbastito una religione. Avrete notato che funziona quasi sempre così. C’è gente che continua a ricordare un passato, e sperare che prima o poi le cose si sistemeranno, qualche radiazione si dimezzerà, la pioggia non sarà più così acida e la terra ricomincerà a sputar semi buoni da mangiare. È l’idea del paradiso, che a ben vedere crea solo illusioni, civiltà e ogni altra sorta di problemi. Per alcuni è un luogo nel tempo, per altri nello spazio: un walhalla da qualche parte in cielo, o un’oasi al di là della salina. Se hai benzina per duecento giorni di viaggio arrivi ai cancelli dell’Eden: là hanno i prati verdi per giocare a golf e le televisioni con gli show, e state a sentire, per alcuni George Miller è salito su un aereo ad alta quota ed è fuggito laggiù e fa il regista di show con gli animali. Maialini parlanti. È una leggenda così stramba che rischia di essere vera, perché andiamo, chi sarebbe così pazzo da inventarsela? Maialini parlanti, e poi cosa? Pinguini ballerini?

 

J’adore.

Io sono di quelli che non credono né a una versione né all’altra. Per me il pazzo George non è morto e non è in paradiso ad animare cartoni. Secondo me è semplicemente da qualche parte nell’outback radioattivo, che continua a girare in tondo e fuggire dai suoi incubi di medico della mutua australiano che disinfettava le piaghe dei motociclisti. Ogni tanto scappa da qualcuno che lo vuole mangiare, ogni tanto salva donne e bambini da un prepotente. In realtà ormai donne e bambini sono mutati abbastanza da difendersi da soli, e non c’è Fanciulla in Pericolo che all’occorrenza non sappia caricare un ak47 e usarlo, se le rompi le ovaie. Però il pazzo George continua in qualche modo a salvare e scappare: è il suo destino. Secondo i vecchi calendari dovrebbe avere più di 70 anni, ecco anche a questo io non credo: il tempo è fuori i cardini da un pezzo, e il vecchio George non conosce un tempo che non sia l’altro ieri. Il mondo può appassire più o meno rapidamente, ma lui è ancora in giro a scappare e sparare e sbandare e ingrugnire, e da questo lo riconoscete incontrandolo: dalla scia di sangue non digitale che si lascerà dietro. Oppure sarà davanti a voi, e in quel caso alzate le mani e sbarrate gli occhi, non è il caso di opporre resistenza. Lui non usa chroma-key, lui puzza di latte e benzina e sudore polvere da sparo e no. Era il migliore all’inizio dei tempi; e a differenza dei tempi, non è peggiorato. L’ultraviolenza distopica degli anni ’70, l’immaginario post-bomba anni ’80, l’ipercinesi della generazione millennial, per lui sono una sola cosa, un unico film, un solo inseguimento. 

 

Tom Hardy in una delle due espressioni, quella ingabbiata (in realtà è bravissimo com’è sempre, ma non ce ne voglia se festeggiamo il fatto che il prossimo Mad Max dovrebbe ruotare sul personaggio di Charlize.

Se lo incontri e hai bisogno di lui, non offrirgli baci, sa di non meritarli. Il latte materno per lui non ha sapore; ancora più dell’acqua, quel che cerca benzina e munizioni, munizioni e benzina. Non ti aiuterà per amore o per giustizia, ma perché ha una gabbia davanti agli occhi e pensa che tu forse puoi staccargliela. In un mondo di pazzi innamorati della morte, lui non è meno pazzo degli altri; ma ha scelto di sopravvivere. Chi gli farà cambiare idea non è ancora nato. 

 

Al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40 in 2D, oppure, in un inutile 3D, alle 20 e alle 22:35). Sempre in 2D al Fiamma di Cuneo (21:10); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30).

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Lauda/Fonzie, un film di Ron Howard

Questo non era un film. Sono serio. Non lo era.

Rush – (Ron Howard, 2013)

 

Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l’effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva… “Lascia perdere”, rispose la Sregolatezza, “quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia”. Sai che perdita, replicò l’amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.

 

Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po’ ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C’è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c’è. La Lotus nera col bordino dorato c’è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell’aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale (“Fisichella”, “Schumacher”) smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.

 

Olivia Wilde, io da te accetterei anche una gastroscopia, ma non fare più ruoli da antipatica. È l’unica cosa che non ti riesce.

Un latinismo assurdo e necessario, un’invocazione, un ringraziamento. Nicky Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un’ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri.  Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota.

 

Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili. 

“Quindi ricapitolando devo fare il…” “Il pivello precisino figlio di mamma e papà”. “Ok”.

 

Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.

 

È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Nicky Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Nicky Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.

 

Otto euro.

 

E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.

 

Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.

 

Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.